Diritti

Il legame tra disabilità e protezione umanitaria

I richiedenti asilo con disabilità fuggono dal Paese di origine e dalle discriminazioni in cerca di cura adeguate. Ma ora, la loro condizione di vulnerabilità potrebbe aiutarli a ricevere protezione internazionale
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4 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Le ragioni che possono spingere una persona a lasciare il proprio Paese di origine per cercare altrove un posto auspicabilmente migliore dover vivere possono essere molteplici, e, tra queste, non necessariamente economiche o politiche, può esservi lo stigma sociale che in alcuni modelli culturali ancora oggi colpisce chi è portatore di una disabilità.

La motivazione in questione è giunta quest’anno all’attenzione della Corte di Cassazione, la quale, con la sentenza n. 13400 del 28 aprile 2022, ha affrontato il caso di un richiedente asilo che a sostegno della propria domanda ha riferito di aver essersi deciso a trasferirsi in Italia nella speranza di ricevere cure adeguate per i danni fisici permanenti, accertati mediante apposita documentazione medica, subiti a seguito di un incidente automobilistico, e, soprattutto, di non voler rientrare nel proprio Paese d’origine poiché bersaglio di trattamenti discriminatori sia sotto il profilo lavorativo sia sotto il profilo socio-assistenziale in ragione della disabilità sopravvenuta.

La sentenza è interessante in quanto i Giudici di Piazza Cavour hanno rilevato come l’esistenza per le persone disabili di ausili previdenziali e di un supporto statuale nel proprio Paese di origine non elimina, ove sussistenti, le conseguenze di condotte discriminatorie ed emarginanti diffuse sul piano sociale e accettate sul piano etico e culturale, contrariamente a quanto aveva invece ritenuto in primo grado il Tribunale di Bologna, che aveva respinto la domanda di protezione umanitaria.

La sentenza in commento rileva altresì come l’allegazione di vulnerabilità del richiedente protezione umanitaria fondata sulla percezione di discriminazione sociale e relazionale dovuta alla disabilità debba essere esaminata e valutata alla luce della “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” sottoscritta a New York il 13 dicembre 2006 (ratificata in Italia con la L. n. 19 del 2009), con la quale gli Stati, all’art. 1, si impegnano a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle persone affette da disabilità e a promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, attraverso l’adozione di misure volte a scongiurare il rischio di qualsivoglia discriminazione sulla base della loro particolare condizione.

La Suprema Corte è quindi giunta ad affermare il principio di diritto secondo cui “La condizione di vulnerabilità idonea a sorreggere il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria può essere fondata sull’allegazione di una situazione di disabilità fisica o psichica generatrice, nel Paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto a emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 Cost. e dall’art. 1 e seguenti della Convenzione Onu, fatta a new York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con L. n. 19 del 2009”.

L’auspicio è che questo principio di diritto venga fatto proprio, in prima battuta, dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, e, in seconda battuta, dalla giurisprudenza di merito chiamata a pronunciarsi sui dinieghi alla concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, affinché i richiedenti asilo con disabilità possano vedersi riconosciuta la dignità sociale che nel loro Paese d’origine gli è stata negata al punto tale da costringerli a intraprendere il viaggio verso il nostro Paese.

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