Diritti

Ogni 2 giorni viene ucciso un attivista ambientale

Secondo il rapporto annuale di Global Witness, i Paesi più pericolosi sono Brasile, Colombia, Filippine e Messico. Dove, nell’ultimo decennio, sono stati uccisi oltre 1700 ambientalisti
Credit: Ehimetalor Akhere Unuabona via Unsplash
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
3 ottobre 2022 Aggiornato alle 07:00

Quasi un omicidio ogni due giorni. È quanto emerge dalla ricerca di Global Witness, la ong che si occupa di violazione dei diritti umani e sfruttamento delle risorse naturali, che ha calcolato il numero di attivisti ambientali uccisi negli ultimi dieci anni: più di 1700.

Vittime di sicari, gruppi criminali organizzati e dei loro stessi governi, spiega il Guardian, i difensori dell’ambiente sono stati assassinati in particolare in Brasile, Colombia, Filippine, Messico e Honduras. I Paesi a basso reddito e le comunità indigene sarebbero le più colpite, con il 39% delle vittime appartenenti a questa fascia demografica. In America Latina, infatti, sono avvenuti più di due terzi degli omicidi tra il 2012 e il 2021, con 342 morti in Brasile e 322 in Colombia. Le Filippine contano 270 vittime, il Messico 154, l’Honduras 117.

«In tutto il mondo, i popoli indigeni e i difensori dell’ambiente rischiano la vita per la lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità», spiega Mike Davis, Ceo di Global Witness. «Gli attivisti e le comunità svolgono un ruolo cruciale come prima linea di difesa contro il collasso ecologico, oltre a essere i primi nella campagna per prevenirlo». Il report arriva a dieci anni dall’uccisione di Chut Witty, ex collega di Davis che lavorava in un’organizzazione che indagava sul disboscamento illegale in Cambogia: «Questo rapporto lancia un appello urgente agli sforzi globali per proteggere e ridurre gli attacchi contro i difensori».

Non risale a molto tempo fa l’uccisione di Dom Philips, giornalista britannico scomparso e assassinato mentre stava lavorando alla stesura del suo libro sullo sviluppo sostenibile How to save the Amazon (“Come salvare l’Amazzonia”). Tra le 200 persone uccise l’anno scorso figurano 8 ranger impegnati a lottare contro la minaccia dell’estrazione di petrolio e gas nel parco nazionale di Virunga, nella Repubblica Democratica del Congo. O ancora l’attivista ambientale Joannah Stutchbury , uccisa fuori dalla sua casa in Kenya, e il contadino Ángel Miro Cartagena, morto in Colombia. Ma il picco di omicidi è stato raggiunto nel 2020, con 227 morti.

«È importante immaginare queste vittime come le persone reali che sono. È più facile per me. Sono stata circondata da difensori della terra e dell’ambiente per tutta la vita, e in effetti sono una di loro», ha scritto l’ambientalista indiana Vandana Shiva nella prefazione del rapporto. «Non siamo solo in un’emergenza climatica. Siamo ai piedi della sesta estinzione di massa e questi difensori sono alcune delle poche persone che vi si oppongono. Non meritano protezione solo per ragioni morali fondamentali», ha aggiunto.

Gli autori del rapporto sottolineano che le cifre, probabilmente, sono significativamente sottostimate e non colgono l’intera scala del problema, poiché molte morti si verificano in quegli ecosistemi cruciali per evitare i peggiori impatti della crisi climatica. La ricerca, in 48 pagine, analizza anche i fattori più comuni degli omicidi in cui la causa era nota: industrie minerarie ed estrattive, disboscamento e agrobusiness. Ali Hines, attivista per Global Witness e autrice del rapporto, ha spiegato che «corruzione e disuguaglianza sono due tipi di fattori chiave abilitanti per gli omicidi. Nel processo di titolazione della terra, possono esserci accordi di investimento tra società e funzionari corrotti. Gli attivisti a volte devono affrontare giudici pagati con tangenti. Questo porta al terzo fattore, che è l’alto tasso di impunità. I casi sono molto raramente indagati in modo credibile, non importa che gli autori siano assicurati alla giustizia».

Una parte del testo è dedicata alle vittorie significative conquistate dagli attivisti ambientali negli ultimi anni: l’anno scorso, in Sud Africa, le comunità indigene della costa dell’Eastern Cape sono riuscite a costringere Shell, l’azienda energetica internazionale altamente competente nella ricerca, produzione, raffinazione e commercializzazione di petrolio e gas naturali, a interrompere l’esplorazione petrolifera nei luoghi di riproduzione delle balene. A maggio, le comunità dell’isola di Sangihe, in Indonesia, hanno vinto una causa contro una società sostenuta dal Canada che intendeva estrarre oro sulla loro isola.

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