Futuro

Pro Publica rivela il ruolo di Facebook nell’assalto a Capitol Hill

Un anno dopo l’assalto al Campidoglio l’organizzazione non profit votata al giornalismo investigativo racconta come il social media di Zuckerberg non avrebbe bloccato - pur sapendo - la disinformazione
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6 gennaio 2022 Aggiornato alle 09:00

Pro Publica, organizzazione non profit vincitrice di 4 Premi Pulitzer negli ultimi 12 anni, e fondata da Herbert e Marion Sandler, a un anno da Capitol Hill - e insieme a Washington Post - sparge sale sulle ferite di Facebook. Dimostrando come il social media abbia giocato un “ruolo fondamentale nella diffusione della disinformazione che ha fomentato le violenza del 6 gennaio 2020”. Si tratta di 650.000 post che - indisturbati - hanno messo in dubbio la legittimità della vittoria presidenziale di Joe Biden contro l’ex presidente Usa Donald Trump. Molti incitavano alla violenza.

L’analisi di Pro Publica si è concentrata tra il giorno delle elezioni e l’assedio a Capitol Hill, sede del Congresso degli Stati Uniti d’America, assaltata il 6 gennaio del 2021. Gli scontri di quel giorno hanno provocato la morte di cinque persone. I gruppi Facebook, in cui sono stati pubblicati più di 10 mila post al giorno, sono diventati dei veri e propri incubatori di notizie infondate diffuse dai sostenitori del tycoon Donald Trump, che rivendicava la vittoria contro il suo sfidante, oggi Presidente degli Stati Uniti d’America.

Molti di questi contenuti descrivevano l’elezione di Joe Biden come il risultato di una frode: una situazione che, secondo questi utenti, avrebbe richiesto l’uso della forza. E così, nelle strade di Washington di fronte al Campidoglio, un anno fa, si consumava una delle più violente proteste contro le istituzioni democratiche americane: c’erano lo sciamano di QAnon con le corna di bisonte, l’uomo che si era accomodato alla scrivania della speaker della Camera Nancy Pelosi, la coppia madre e figlio vestita in tuta da combattimento.

Oggi sono 700 le persone arrestate per questa vicenda. Sono state intercettate da telecamere di sorveglianza, video e foto postati sui social o addirittura segnalate da conoscenti che, dopo averle riconosciute in tv, le hanno denunciate. Molte di loro sono in attesa di un processo, altre inizieranno a breve a scontare la propria condanna.

Sono ancora molte le domande sull’organizzazione dell’assalto e sul ruolo di Donald Trump in questo attacco alla democrazia. In attesa delle risposte, il team ProPublica-Post ha deciso di spostare l’attenzione sulla piattaforma che, forse più di tutte, ne ha reso possibile la realizzazione.

Facebook non sarebbe stata in grado, infatti, di vigilare in modo efficace sulla disinformazione diffusa in quei giorni e sarebbe intervenuta troppo tardi per sedare l’ondata di odio e rabbia che stava fagocitando sulla piattaforma. Drew Pusateri, portavoce dell’azienda, ha dichiarato al Post che “la piattaforma non è responsabile delle violenze del 6 gennaio e l’idea che l’insurrezione non sarebbe avvenuta se non fosse stato per Facebook è assurda”. Pusateri sostiene che la responsabilità sia soprattutto di Donald Trump, che non solo ha sostenuto che le elezioni erano state truccate, ma ha anche incoraggiato i manifestanti ad agire. Proprio quel giorno, proprio non distante dal Campidoglio e in mezzo alla folla.

Tuttavia, Pro Publica insiste. I lavoro di analisi si è concentrato su 27mila gruppi pubblici in cui sono stati messi online più di 18 milioni di post tra il giorno delle elezioni e il 6 gennaio. Ricercando tramite un programma di intelligenza artificiale parole e frasi che identificassero attacchi all’integrità delle elezioni, sono state scovate 650 mila frasi particolarmente forti. E probabilmente si tratta di risultati sottostimati, perché non sono stati inclusi commenti e post in gruppi o profili privati. “Solo Facebook ha accesso a tutti i dati per calcolare il totale, e non li ha resi pubblici” scrive il Washington Post.

L’azienda, nei mesi precedenti al voto americano, aveva creato task force che sorvegliassero i gruppi pubblici incentrati sulla politica. Erano diventati così tossici, secondo gli ex dipendenti di Facebook, che monitorarli era diventata una priorità: ne erano stati rimossi a centinaia prima del 3 novembre 2020. Poi, poco dopo il voto, l’azienda aveva deciso di sciogliere le task force e i gruppi erano stati sommersi da disinformazione e rabbia. Pusateri, ufficio stampa di Facebook, ha negato che la società abbia “rinunciato a limitare” i post violenti e falsi sulle elezioni dopo il voto, e non ha commentato i risultati dell’indagine ProPublica-Post. Anzi, ha dichiarato che la società ha un team dedicato all’integrità dei gruppi.

Tuttavia, l’analisi di Pro Publica ha anche sottolineato l’importanza economica che questi gruppi “Trumpiani” hanno per la piattaforma. Tengono alti i livelli di interazione e costituiscono entrate molto importanti per Facebook. Nel 2020, 86 miliardi di dollari. Per questo - secondo l’indagine - gli sforzi nel sedare queste ondate di disinformazione sarebbero stati inefficaci.

A supporto di questi dati le dichiarazioni Frances Haugen, l’ex data scientist della piattaforma che mesi fa aveva testimoniato davanti al Congresso avvertendo sugli effetti dannosi dell’azienda in tutto il mondo. Li aveva definiti “un disastro”: la politica di Facebook è intervenire solo dopo che un problema ha causato gravi danni. Che spesso si traducono in caos e violenza. Non prima.