Diritti

Ehhh, i giovani non s’interessano alla politica. Oppure sì?

L’astensionismo è il vincitore indiscusso di queste elezioni. Ma distinguiamo tra chi non ha voluto e chi non ha potuto votare. Coi fuorisede e chi già vive in Italia ma non ha cittadinanza, il risultato sarebbe stato diverso
Credit: Yolanda Suen/unsplash
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29 settembre 2022 Aggiornato alle 06:30

La vittoria del “partito dell’astensionismo” è ormai un grande classico del commento post-elettorale. A ogni tornata, ci si chiede chi e perché non vota, si fanno collegamenti vagamente classisti tra reddito, istruzione e intenzioni di voto e spesso si procede a una sorta di caccia al colpevole che si è comportato in modo irresponsabile. Negli ultimi anni, questo colpevole è stato individuato soprattutto nei giovani. Dopotutto, questa narrazione si allinea perfettamente a quella della pigrizia che caratterizza la mia generazione: come non abbiamo voglia di lavorare, non abbiamo voglia di votare.

Ma proprio come per l’occupazione, anche l’astensionismo è in realtà molto più complesso di quanto appare. È vero, milioni di italiani non vogliono votare (per motivi che sarebbero forse da ricercare più in chi viene votato e non in chi è chiamato a votare), ma c’è un ampio bacino di persone che non votano perché non possono. Si chiama astensionismo involontario ed è più diffuso proprio tra quei giovani incolpati di disinteressarsi alla politica, che al contrario vorrebbero interessarsene ma non hanno la possibilità di farlo.

La prima questione è quella dei fuorisede. Cinque milioni di giovani under 35, che studiano e lavorano lontano dal luogo di residenza, non si sono potuti recare alle urne. È paradossale che sia stato messo a punto un sistema per far votare gli studenti in Erasmus, ma non una studentessa napoletana che studia a Milano. Persino il presidente Mattarella si è dovuto recare a Palermo per esercitare il suo diritto di voto. I fuorisede, specialmente quelli che vivono al Sud, hanno rinunciato a partire spesso a causa dei costi proibitivi e la difficoltà degli spostamenti, nonostante le convenzioni del ministero dell’Interno con le linee ferroviarie e le compagnie aeree. Anche avere un solo giorno a disposizione per votare anziché due ha inciso sulla possibilità di spostarsi.

Il problema è cronico ma spesso ignorato dalla classe dirigente, che non vede nei giovani un elettorato attrattivo. Sono state attivate diverse campagne e iniziative di solidarietà come la petizione Io voto Fuori Sede e la raccolta fondi organizzata dall’associazione Voto Scomodo per pagare le spese di viaggio dei fuorisede, ma senza una legge in merito le cose non cambieranno mai. Non che siano stati fatti dei tentativi, ma nessuno è andato a buon fine. Eppure cinque milioni non sono pochi: sono un decimo del totale degli elettori e corrispondono quasi al numero di quelli della circoscrizione estero.

L’altra questione riguarda poi chi non ha potuto votare perché la cittadinanza non ce l’ha, nonostante sia nato e cresciuto sul territorio italiano. Oltre un milione di persone maggiorenni che risiedono in Italia da anni o dalla nascita non hanno potuto scegliere chi governerà anche loro. In particolare, i cosiddetti “italiani di seconda generazione” (nati in Italia da genitori stranieri) sono quelli che più sentono l’ingiustizia della mancata partecipazione politica, sentendosi a tutti gli effetti cittadini italiani.

Secondo la legge 91/92, la cittadinanza si ottiene soltanto per nascita, per adozione da parte di un cittadino italiano oppure a diciotto anni, a condizione che i genitori stranieri dimostrino di aver vissuto in Italia legalmente e ininterrottamente. Può essere invece richiesta in caso di matrimonio con un cittadino o una cittadina italiani oppure se si risiede in Italia da più di dieci anni con un reddito personale e familiare di almeno 8.000 euro. Al compimento della maggiore età, però, non si diventa cittadini automaticamente. Bisogna fare una richiesta, che può essere prorogata o addirittura respinta per moltissime ragioni, come un documento mancante e difficile da reperire, un viaggio all’estero o un Erasmus. Anche in questo caso esistono diverse iniziative di sensibilizzazione, come la campagna Il mio voto vale, ma ciò che sarebbe davvero necessario è una riforma della cittadinanza che, con l’assetto di governo che ci aspetta, sicuramente non avverrà in tempi brevi.

Almeno sei milioni di giovani elettori potenziali, quindi, non hanno potuto votare e forse, se l’avessero potuto fare, i risultati elettorali sarebbero stati diversi. Guardando cosa hanno scelto gli elettori tra i 18 e i 34 anni, emerge una fotografia del Paese molto diversa da quella che ha trionfato 25 settembre: tra i neomaggiorenni il partito più votato è stato il Movimento 5 Stelle (20,3%) con il Pd a seguire (19,4%); il partito maggioritario Fratelli d’Italia è soltanto terzo (14%), con la coalizione Azione/Italia Viva subito dopo (13,9%).

Incolpare i giovani dell’astensionismo è un modo facile per non affrontare l’elefante nella stanza, in un meccanismo in cui si confondono cause e conseguenze: non solo si continua a ignorare il problema dell’astensionismo involontario, ma si accusano le nuove generazioni di non interessarsi a una politica che a sua volta non ha interesse di rivolgersi a loro. Per attrarre i giovani non basta fare video cringe su TikTok, ma bisogna occuparsi del loro futuro: sostenibilità ambientale, precariato, diritti civili. Finché i giovani verranno eternamente trattati dalla classe dirigente come “giovani”, ovvero come adulti del domani i cui interessi e problemi possono essere messi in standby, non ci sarà alcun desiderio da parte loro di partecipare alla vita politica del Paese. E sarà veramente ipocrita addossargli persino la colpa del disastro che ci aspetta.

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