Diritti

God Save the Commonwealth

Dopo la morte di Queen Elizabeth, diverse ex colonie dell’impero spingono per abbandonare definitivamente la monarchia
William e Kate (ormai Principe e Principessa del Galles) nel loro tour in Jamaica lo scorso marzo
William e Kate (ormai Principe e Principessa del Galles) nel loro tour in Jamaica lo scorso marzo Credit: EPA/RUDOLPH BROWN
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
17 settembre 2022 Aggiornato alle 17:00

Più che una morte, quella di Elisabetta II è stata una sospensione d’immortalità. Ora che la regina d’Inghilterra è passata a un altro regno e la corona ha cambiato padrone, molti commentatori si sono affrettati a contarne le spine.

La più urticante riguarda la natura stessa della monarchia, che sublimata la fede dei sudditi nel carisma silenzioso e ironico di Elisabetta, in parte già compromesso nel corso dell’ultimo decennio, rischierebbe di finire strozzata tra un borbottio e l’altro del neonato (73 anni) re Carlo III, fin da subito interprete di una certa letterale resistenza a scrivere la propria pagina di storia.

Ma prendiamola larga e veniamo alla prima domanda: che ne sarà del Commonwealth? Il Commonwealth delle nazioni, come vuole il suo nome per esteso, è un’organizzazione intergovernativa che oggi comprende 56 Stati indipendenti, in maggioranza ex colonie dell’impero britannico. Di questi 15 sono i cosiddetti “reami del Commonwealth”, monarchie che condividono Carlo III nel ruolo di capo di Stato.

Questi comprendono, oltre al Regno Unito, anche Australia, Canada, Giamaica, Grenada, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Tuvalu, Antigua e Barbuda, Isole Bahamas, Belize, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine. Per tutti gli altri Stati Carlo III è solo il capo formale del Commonwealth, come accettato nel 2018 dai leader degli Stati membri su proposta di Elisabetta II.

Ora alcuni di questi Stati manifestano l’intenzione di chiudere l’esperienza monarchica e lasciarsi definitivamente alle spalle i legami col loro passato coloniale. A fare da apripista è stata l’isola di Barbados, che il 31 novembre 2021, in occasione del 55º anniversario dall’indipendenza dal Regno Unito, ha rimosso Elisabetta II come capo di Stato per diventare una repubblica, pur restando all’interno del Commonwealth.

Tre giorni dopo la morte della regina, lo Stato insulare Antigua e Barbuda, nei Caraibi, ha annunciato che entro tre anni potrebbe indire un referendum per decidere se abbandonare a sua volta la monarchia. Il primo ministro Gaston Browne ci ha tenuto a precisare che «non si tratta di un atto di ostilità», ma «il passo finale per completare il cerchio dell’indipendenza e diventare una nazione veramente sovrana».

Sulla stessa linea anche Giamaica e Belize, dove lo scorso anno la corona era stata accolta duramente nel corso di un infausto tour di William e Kate nei Paesi caraibici. In quell’occasione un comitato governativo delle Bahamas aveva esortato i reali a presentare «scuse complete e formali per i loro crimini contro l’umanità».

A pesare, oltre il retaggio coloniale, anche la ferita più recente provocata dal cosiddetto “scandalo Windrush”, legato a una serie di discriminazioni perpetrate ai danni dei cittadini britannici di origine per lo più caraibica – chiamati “generazione Windrush” dal nome della nave che portò uno dei primi flussi di migranti nel Regno Unito – da parte del governo guidato da Theresa May.

Il dibattito sulla monarchia si è riacceso anche in Australia. «Abbiamo bisogno di un trattato con le popolazioni delle Prime Nazioni e dobbiamo diventare una Repubblica», ha twittato all’indomani della morte di Elisabetta il leader dei Verdi australiani Adam Bandt. Ma il primo ministro Anthony Albanese ha ritenuto opportuno rimandare la discussione.

«Condividiamo il dolore che tanti australiani stanno provando in questo momento, mostrando il nostro profondo rispetto e la nostra ammirazione per il contributo della Regina all’Australia», ha affermato Albanese. «In questo periodo le domande più grandi sulla nostra costituzione non sono queste», ha concluso.

Ma a gettare ombra sulla casa dinastica del Regno Unito è anche la coinquilina Scozia, che già nel 2014 tentò senza successo la strada del referendum indipendentista (vinse il “No” col 55,3%). Dopo la Brexit, osteggiata dal 62% degli scozzesi, le cose potrebbero cambiare. A giugno la prima ministra Nicola Sturgeon ha presentato un disegno di legge col proposito di indire un nuovo referendum il 19 ottobre 2023.

«Non permetterò mai che la democrazia scozzese sia prigioniera di Boris Johnson o di qualsiasi altro primo ministro - aveva dichiarato in quell’occasione Sturgeon - La questione dell’indipendenza non può essere cancellata. Va risolta democraticamente». Il referendum deve però ottenere il permesso di Londra, che al momento ha negato l’autorizzazione. Il caso è stato quindi rimesso alla Corte suprema del Regno Unito, dove sarà esaminato nel mese di ottobre.

Leggi anche
ANDY WARHOL | QUEEN ELIZABETH II OF THE UNITED KINGDOM
Regina Elisabetta
di Alessia Ferri 5 min lettura
Tecnologia
di Caterina Tarquini 3 min lettura