Diritti

Marta Serafini: «La guerra non è solo sul campo»

Inviata ed esperta di terrorismo e relazioni internazionali, la neo vincitrice del Premiolino 2022 ha raccontato alla Svolta i conflitti, dall’Afghanistan all’Ucraina, attraverso gli occhi di chi li subisce. Le donne in primis
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Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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16 settembre 2022 Aggiornato alle 17:00

Le donne ucraine rappresentano il 90% delle persone che hanno lasciato il Paese, questo le rende vulnerabili a diversi tipi di violenza, compresi lo sfruttamento, la tratta e il traffico di esseri umani».

Marta Serafini, invita di guerra del Corriere della Sera, esperta di terrorismo internazionale e autrice di libri e reportage, negli ultimi mesi ne ha conosciute molte e proprio il suo modo di raccontarne la quotidianità squarciata dal conflitto l’ha portata a vincere il prestigioso premio giornalistico Il Premiolino, assegnatole perché, si legge nelle motivazione: “ha saputo incrociare la sua passione per le storie delle persone incontrate in questa guerra nel cuore d’Europa con la ricerca del linguaggio più efficace per raggiungere lettrici e lettori su ogni piattaforma”.

Il fronte ucraino è solo l’ultimo in ordine di tempo di quelli che ha battuto, ma prima ci sono stati Siria, Iraq, Libano, Giordania, Afghanistan, Armenia e Tunisia, raccontati attraverso lo sguardo di chi subisce i bombardamenti, prima ancora che di imbraccia le armi.

Spesso le interviste alle inviate nei luoghi interessati dai conflitti sono contornate da frasi come “La guerra raccontata dalle donne”, ha senso questa specifica o si usa solo perché si tratta di un giornalismo visto ancora come fortemente maschile?

Per fortuna, dalla Seconda Guerra Mondiale, le inviate di guerra sono aumentate progressivamente e durante il mio lavoro in Ucraina ho incontrato tantissime colleghe, tutte molto brave.

La guerra non è diversa se raccontata dalle donne, ma che queste ultime lo facciano è importante perché la loro narrazione spesso, a differenza di quella maschile più prettamente militare, è focalizzata sulla società civile, nonostante le reporter siano le prime a stare anche in prima linea sul fronte.

È fondamentale avere entrambi questi sguardi, così come dare voce anche alle donne locali e a ciò che accade loro. Crimini come gli stupri sono narrati quasi sempre da giornaliste e nonostante le ragioni siano anche di natura pratica sarebbe bello che un giorni anche gli uomini se ne occupassero e non prestassero attenzione solo al campo militare, che è importantissimo ma non l’unico aspetto da indagare.

Ho le sensazione che proprio degli stupri da parte dei soldati russi si parli meno rispetto ad altri conflitti, sbaglio?

Io credo se ne parli. Ovviamente molte donne non si sentono ancora pronte a raccontare e bisogna rispettare questo silenzio e dare modo ai procuratori e alla polizia di raccogliere prove e testimonianze. Sicuramente di questo tema parleremo ancora. D’altro canto le donne sono molto presenti nella società del Paese. L’esercito, il parlamento e non solo hanno una forte presenza femminile e non è escluso che la guerra come già successo in passato non rappresenti un catalizzatore del processo di parità. Meno si parla, invece, per ragioni culturali, degli stupri sugli uomini e sui prigionieri, ma anche questo è un aspetto terribile della guerra.

Lei si è occupata di Ucraina dopo anni di guerre in Medio Oriente. Tralasciando le motivazioni politiche e strategiche dietro a ogni conflitto, parlando con la popolazione ha la sensazione che le guerre si somiglino un po’ tutte o esistono differenze?

Ci sono indubbiamente differenze legate alla geografia e alla composizione demografica e sociale dei vari luoghi ma per i civili le priorità sono sempre le stesse: avere cibo, luce e acqua, e questo li rende uguali a qualunque latitudine.

È stata diverse volte in Afghanistan, sia prima sia dopo la ripresa del potere da parte dei talebani, quanto è cambiata la condizione delle donne nel Paese dopo l’estate 2021?

La loro situazione attualmente è drammatica. Dopo il 15 di agosto e gli accordi di Doha che hanno riportato al potere i talebani, le afghane hanno perso quei pochi diritti conquistati faticosamente in 20 anni. Ora devono di nuovo lottare per studiare, e non possono sottrarsi in alcun modo alla Sharia.

Molte poi rientrano nella atroce categoria delle spose bambine

Sì. Già a pochi mesi dal ritorno dei talebani al potere, si registrava un incremento dei matrimoni infantili. Il prezzo medio per una sposa bambina in Afghanistan è di 2000 dollari. Le ragazze sono di fatto diventate il prezzo da pagare per il cibo, senza venderle le loro famiglie in molti casi non sopravviverebbero.

L’aumento di questo fenomeno è un forte campanello di allarme, tuttavia se vogliamo guardare avanti, il coraggio e la determinazione di alcune donne che sono scese in piazza rischiando la vita a protestare lascia un segno di speranza.

In quanto esperta di terrorismo internazionale ha spesso raccontato il ruolo delle donne nell’Isis, che non è solo quello di vittime ma anche di combattenti. Ne ha conosciute personalmente qualcuna?

Si, e alcune erano profondamente convinte nel dare il loro sostegno all’Isis. Alcune hanno anche avuto un ruolo attivo, gestendo il traffico delle schiave yazide o occupandosi del reclutamento e del controllo delle altre donne. Isis ha poi creato veri e propri battaglioni femminili che sono entrati in azione nelle ultime ore della battaglia del Califfato. Si tende a sottovalutare il ruolo delle donne, soprattutto nei gruppi jihadisti, definendole spose ma è una prospettiva miope che non tiene conto del rischio anche in futuro che le donne, proprio perché meno sospettabili, vengano impiegate sempre di più sul campo.

Ancor meno sospettabili quando fanno parte dei foreign fighters come Maria Giulia Sergio, considerata la prima jihadista italiana, sulla quale ha scritto il libro Maria Giulia che divenne Fatima. Parlando con lei che impressione ha avuto?

Maria Giulia e Fatima sono la stessa persona ma c’è uno strappo nella vita di Maria Giulia che la porta prima a convertirsi all’Islam e poi a radicalizzarsi fino ad affiliarsi all’Isis. Pur avendo seguito la sua storia per anni non ho mai capito quale fosse la causa di questo strappo. Un amore finito male? Rabbia nei confronti della società? Ricerca di purezza? Qualunque sia il motivo credo che Maria Giulia abbia trovato risposta nel posto sbagliato ma penso che cercare di rispondere alla domanda più difficile - perché? - ci permetta di evitare che altre giovani donne come lei cadano in questa trappola.

Com’è per una donna essere un’inviata di guerra in paesi come l’Afghanistan? Hai mai vissuto momenti di pericolo?

Sebbene ovviamente mi affidi sul campo a collaboratori fidati e senza i quali non potrei fare il mio lavoro In Afghanistan così come in Ucraina o in altri scenari di guerra, ovviamente mi sono trovata in pericolo. E ho avuto paura. Ma credo che il coraggio sia proprio avere paura. E imparare a gestirla.

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