Diritti

Anche gli uomini afghani soffrono

In una società patriarcale a risentirne sono tutti e tutte. Specialmente quando crolla l’economia, l’occupazione, come è accaduto in Afghanistan. Perché in questi casi, nessunə è al sicuro
Credit: sohaib-ghyasi/unsplash
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
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6 settembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Cosa succede in un Paese quando a prendere il potere sono forze politiche di matrice non democratica e che si fanno portavoce di una visione patriarcale?

No, oggi non parliamo di Italia, ma di Afghanistan. E della storia di M., ma ci arriviamo tra poco.

L’Afghanistan, com’è noto, è un Paese oggetto di vicende complesse. La più recente, circa un anno fa, è stato l’abbandono del Paese da parte delle forze militari della NATO, che ha fatto seguito a un’avanzata indisturbata delle milizie talebane sul territorio iniziata solo tre mesi prima (dopo 20 anni di controllo straniero e gli accordi di Doha siglati da Trump). A distanza di un anno dalla presa di potere dei talebani, la loro incapacità gestionale sul piano economico (e purtroppo, non solo) è sotto gli occhi di tutti. Il PIL è crollato del 30%, l’occupazione è in caduta libera, i servizi sociali sono ridotti al minimo.

Certo, c’era da aspettarselo: il bilancio pubblico del Paese dipendeva per il 45% dagli aiuti internazionali, che sono stati congelati. La spesa pubblica si è quindi contratta del 60%, la Banca Centrale ha perso l’accesso alle attività estere per circa 9,2 miliardi di dollari, i pagamenti internazionali sono di fatto impediti. Sono circa 25 milioni le persone che vivono in condizioni di povertà (su una popolazione complessiva di circa 39 milioni).

Poi, ovviamente, c’è il tema delle donne, la cui vita si è interrotta da un giorno all’altro. Ragazze ventenni che sono cresciute potendo studiare e immaginare il proprio futuro, che invece ora vivono recluse e dipendono totalmente dai maschi della propria famiglia anche solo per uscire di casa.

Iniziamo dalle donne

Sul territorio opera ancora Fondazione Pangea, attiva a Kabul dal 2003. In questi anni, Pangea ha coinvolto più di 7.000 donne nei programmi in Afghanistan, principalmente attivando progetti di microcredito che hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza rispetto ai propri diritti, ma anche ad avviare processi di empowerment sociale ed economico. Attualmente, le attività di microcredito per le donne sono bandite dai talebani e quindi, la fondazione ha iniziato a distribuire cibo e beni di prima necessità in 7 provincie del Paese, prevalentemente a donne sole con bambini, famiglie senza reddito, famiglie minacciate dai talebani o che vivono nascoste. Allo stesso tempo, ha fornito un riparo a tutte quelle persone che rischiano la propria vita e continuano a essere minacciate dai Talebani per lattività che svolgevano prima del loro arrivo.

Con grande impegno e determinazione, Pangea è anche riuscita a mettere in salvo 40 donne con famiglie (circa 300 persone) che hanno lavorato con la fondazione negli anni passati e che, per questo, rischiavano violenze, stupri o perfino la morte. Attualmente, si trovano in Italia e Pangea le sta accompagnando nel percorso di accoglienza e integrazione attraverso linsegnamento della lingua italiana e linserimento lavorativo.

Ma la vita è peggiorata anche per gli uomini

Grazie a Silvia Redigolo, responsabile della comunicazione di Pangea, ho avuto l’occasione di parlare con M., che, prima dell’arrivo dei talebani, era un volto noto della televisione afghana. Nel momento dell’ingresso delle milizie talebane a Kabul, M. è nel suo studio televisivo e commenta in diretta quanto sta avvenendo. Capisce di essere costretto a lasciare immediatamente la città e il Paese. Corre a casa per prendere la moglie e i figli, brucia tutti i suoi appunti, prepara la fuga. Ma durante la notte, i Talebani fanno irruzione nella sua casa e lo arrestano davanti ai suoi figli. Per qualche settimana, rimane rinchiuso in prigione, finché alcuni amici non riescono a farlo evadere. A quel punto, recupera la famiglia e scappano a piedi in Iran. Da lì, dopo varie traversie arriva in Italia. Sono tutti sani e salvi. Ma la sua vita è mozzata, la sua carriera almeno temporaneamente sospesa.

Quando mi parla, M. è accorato. Prova una nostalgia struggente della vita che conduceva prima, è incredulo e affranto quando parla del suo Paese, non riesce a credere (mi dice) che debbano trovarsi un’altra volta in queste condizioni. È preoccupato per le persone che ha lasciato indietro e che rischiano la vita, per la fame o per le violenze dei talebani.

I suoi racconti mi colpiscono. Anche sui media, gran parte della narrazione sulle drammatiche conseguenze dell’avvento dei talebani sono state sinora incentrate sulle donne: un sistema patriarcale di gestione del potere, un modello che tende a mortificare e annullare il genere femminile, l’illusione di poter condurre una vita normale che viene spazzata via. Ma in una situazione di questo tipo, a peggiorare drasticamente è anche la vita degli uomini, anche se apparentemente sembrano essere più al sicuro. Da un lato, perché quando gli indicatori di performance macroeconomica del Paese crollano, a risentire sono tutte e tutti. Dall’altro, perché anche in un sistema patriarcale, non tutti gli uomini sono ben graditi. Un tema su cui anche gli uomini dovrebbero riflettere, in ogni Paese.

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