Economia

Inflazione… a gonfie vele!

Per alcuni è l’olio dell’economia. Un maggiore, ma controllato, aumento dei prezzi potrebbe portarci a rivedere i nostri modelli di consumo e comportamento. Rendendoli più sostenibili
Credit: Jim/flickr
Tempo di lettura 8 min lettura
8 settembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Secondo indagini campionarie precedenti lo scoppio della guerra in Ucraina, solo il 60% degli italiani comprendeva le conseguenze di un aumento generalizzato dei prezzi sulla propria vita quotidiana.

In effetti, per circa due decenni l’inflazione, in Europa e in Italia, non ha rappresentato un problema.

È rimasta sottotraccia, su livelli contenuti o nulli grazie al concorrere di una serie di fattori positivi, anche tecnologici, e a una politica monetaria che - da fine 2007 in poi - è stata accomodante. I soldi costavano poco, i tassi di interessi in alcuni periodi hanno rasentato lo zero.

Gli economisti sanno, però, che è difficile gestire l’economia contrastando gli effetti ciclici che, in un battibaleno, possono mandare a carte e quarantotto quello che sembrava un equilibrio.

I boomer e la generazione X ricordano ancora le domeniche a piedi, l’uso parsimonioso dell’acqua calda e un’alimentazione meno ricca di proteine (carne e pesce negli anni ’70-‘80 avevano prezzi non alla portata di tutti e non mi riferisco ai poveri. ma alla classe media impiegatizia).

Inflazione è un termine gergale per indicare l’aumento dei prezzi di un paniere di beni considerati necessari o di uso comune (per questo il paniere cambia nel tempo) e non è di per sé un male, se rimane contenuta. Alcuni la considerano l’olio dell’economia perché senza aspettative inflazionistiche è più difficile investire per aumentare la capacità produttiva. Il punto è che deve rimanere contenuta.

Il prezzo di un bene dipende da molteplici fattori che ne influenzano la domanda e l’offerta. Alcuni di questi fattori possono essere controllati dalle politiche, altri no e possono essere legati a shock esogeni, ovvero inattesi e non controllabili (es. la guerra).

Se l’inflazione supera le due cifre (oltre il 10%) inizia a esercitare un effetto psicologico non sempre facile da prevedere che può generare decisioni di spesa basate sulla paura. Fenomeni di iperinflazione sono rari ma non impossibili e possono sorgere per molti motivi.

A parte Germania e Argentina, che tutti conosciamo, sono noti fenomeni simili nella Grecia di Pericle e nella Roma del III secolo con aumenti dei prezzi che superavano il 1000% annuo.

Dal 2021 i prezzi al consumo sono aumentati in modo costante, in tutto il mondo occidentale. A luglio l’inflazione negli Usa è stata dell’8,5%, ad agosto nell’eurozona ha toccato il 9,1% e l’8,4% in Italia, superando le aspettative.

L’aumento dei prezzi – iniziato prima della guerra - nasceva da condizioni di strozzatura dell’offerta a fronte di un vero e proprio sconvolgimento della catena di valore globale, conseguenza della pandemia, e di altri fattori anche contingenti (blocco del Canale di Suez, blocco dei porti in Cina, carenza di materie prime rare e via dicendo).

Se chiudono le fabbriche perché non ci sono le materie prime, o non si hanno i pezzi intermedi, l’offerta diminuisce (si pensi al settore automobilistico). Per equilibrare domanda e offerta, l’unica soluzione è l’aumento dei prezzi. Un aumento dei prezzi toglie dal mercato tutti coloro che non si possono più permettere il bene.

A ben guardare, con il ritorno della domanda post-covid (una sorta di rimbalzo sostenuto anche dai risparmi accumulati) l’aumento dei prezzi non appariva affatto come qualcosa di temporaneo.

Per allentare la tensione sui prezzi, l’offerta avrebbe dovuto aumentare (difficile senza le materie prime) oppure la domanda ridursi a scapito della crescita, impossibile dati i piani di sostegno dei governi che - dopo la recessione - volevano recuperare il terreno perso, anche per tenere sotto controllo un malessere sociale strisciante.

Nonostante ciò i migliori centri studi e la Bce hanno continuato per mesi a dire che l’aumento dell’inflazione sarebbe stato temporaneo e contenuto, salvo poi rivedere le previsioni al rialzo.

Per esempio, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto la stima dell’inflazione mondiale, per l’anno in corso, di oltre 6 punti percentuali nel periodo che intercorre tra gennaio 2021 e luglio 2022. Un cambio di visione che si può definire senza dubbio rilevante.

Gestire l’inflazione non è cosa da ragazzi, proprio perché dipende da una molteplicità di fattori tra cui anche quelli psicologici legati alle aspettative. In genere, alla politica monetaria si attribuisce una maggiore efficacia sul controllo dei prezzi rispetto alla politica fiscale. Meccanicamente una riduzione della massa monetaria in circolazione restringe il consumo di beni e, aumentando il tasso di interesse, contiene gli investimenti che diventano più costosi e sono essi stessi parte della domanda.

Di fronte alla dinamica dei prezzi e all’evidenza che non si stavano riducendo da soli, le maggiori banche centrali hanno recentemente annunciato al mercato di voler agire in modo deciso per contenere i prezzi, al costo di creare un impatto negativo sulla crescita e sull’occupazione. L’aggressività della manovra è giustificata dall’intenzione di contenere le aspettative di inflazione a lungo termine.

Cosa cambia per i cittadini?

L’inflazione cambia le carte in tavola e amplifica le disuguaglianze. Se i prezzi salgono il potere di acquisto del denaro si riduce.

L’inflazione è una sorta di flat- tax che colpisce di più chi ha meno.

Il primo problema è, quindi, la perdita del potere di acquisto a meno di una compensazione salariale che non sembra attualmente prevista.

Perdere potere d’acquisto significa dover imparare ad avere maggior controllo delle uscite, confrontare i prezzi, ridurre gli sprechi, usare lo strumento del budget e della pianificazione per evitare di fare scelte di consumo non ponderate.

Il secondo problema è quello del debito, che se contratto a tassi variabili, può diventare non sostenibile per effetto dell’aumento della rata. In questo caso bisogna valutare se ricontrattare il debito per cercare di limitare l’incertezza della rata, magari fissando il tasso e aumentando la scadenza.

Tuttavia, va ricordato che il valore reale (valore nominale al netto dell’inflazione) del debito si riduce. Di fatto chi si è indebitato a tasso fisso ed è un professionista - con un reddito adeguato all’inflazione - potrebbe trarne giovamento.

Il terzo problema dell’inflazione (fuori controllo) è l’incertezza che complica molto un processo decisionale già complicato da una serie di distorsioni mentali che popolano la nostra testa quando gestiamo i soldi. Esiste, infatti, un fenomeno chiamato “illusione monetaria” che non consente di valutare in maniera appropriata il valore della nostra ricchezza, perché ci concentriamo sul valore nominale e non su quello reale.

Normalmente anche quando parliamo dei rendimenti (ad esempio, il tasso di interesse di un conto corrente o il rendimento di un titolo obbligazionario o anche un dividendo) ci riferiamo a valori nominali, cioè al tasso di crescita del nostro capitale investito. Per conoscere il tasso di crescita del potere di acquisto del nostro capitale dobbiamo sottrare al tasso di crescita nominale il tasso atteso d’inflazione. E questo significa che in periodi di alta inflazione anche rendimenti nominali molto alti possono diventare negativi se valutati al netto dell’inflazione. Le nostre decisioni dovrebbero essere sempre prese sulla base di calcoli al netto dell’inflazione.

Il quarto problema, nel caso in cui si abbiano dei risparmi, è come proteggerli. La prima cosa da fare è diversificare, cioè investire in prodotti finanziari diversi. Se mettiamo i soldi sotto il materasso non proteggiamo il valore reale del nostro patrimonio. Ma, quando l’inflazione aumenta, di solito aumentano anche i tassi di interesse e i rendimenti delle attività finanziarie. È, quindi, importante investire una parte dei propri risparmi in strumenti che scadono a breve o a tasso variabile e in titoli indicizzati all’inflazione. Avere una parte dei risparmi investita in strumenti a breve termine consente di reinvestire i fondi scaduti a tassi che nel frattempo saranno aumentati con l’inflazione. Nel caso dei titoli a tasso variabile o indicizzati all’inflazione, l’aumento del rendimento avviene in modo automatico.

Quale potrebbe essere un possibile effetto positivo?

Una maggiore inflazione (non fuori controllo) ci potrebbe portare a rivedere i nostri modelli di consumo e di comportamento, rendendoli forse più sostenibili. Abbiamo bisogno di 22 gradi centigradi nelle nostre case o con un maglione in più ne possono bastare di meno? Possiamo evitare di comprare cibo che finisce nella spazzatura facendo la lista della spesa prima di entrare nel supermercato? Possiamo rinunciare ad acquistare l’ennesimo paio di scarpe se non è necessario? Possiamo evitare di spritzare tutti i santi giorni?

Qualcuno penserà che si tratta di sacrifici a cui non siamo più disponibili. Ma ne siamo sicuri? Negli anni ’80 non si era più depressi o infelici. Nonostante fossero anni ancora più bui di questi, eravamo tutti “figli delle stelle”.

Una certa parsimonia nei costumi magari non piacerà a chi spende 65 euro per mangiare una pizza nella quale trova la propria ragione di vita, ma ci renderà più liberi da manipolazione che spesso non riusciamo a riconoscere e forse, cosa ancora più importante, ritarderà la nostra estinzione dal pianeta terra.

Giovanna Paladino, economista, Direttrice e Curatrice del Museo del Risparmio

Leggi anche
Finanza
di Azzurra Rinaldi 7 min lettura
Gas
di Luca De Biase 4 min lettura