Culture

Grande cinema e climate change, una storia ancora tutta da scrivere

La grande industria cinematografica globale pare ancora refrattaria ad affrontare i grandi temi del climate change: ecco perché
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5 gennaio 2022 Aggiornato alle 21:00

In principio fu Roland Emmerich: dopo il clamoroso successo datato 1996 di “Independence Day”, in cui la storia dell’invasione aliena sulla Terra aveva generato incassi per 800 milioni di dollari, la pressione degli Studios hollywoodiani sul regista tedesco – ma trapiantato in America dai primi anni ’90 – per un sequel era ovviamente enorme. Emmerich però si oppose a tutto e tutti. Al momento di tirare fuori finalmente un altro kolossal con ambizioni da blockbuster, il suo marchio di fabbrica, se ne venne fuori invece con “L’alba del giorno dopo” (“The Day After Tomorrow”, nel titolo originale). Un film nato da un incontro letterariamente fulminante: quello con “The Coming Global Superstorm”, libro firmato da Art Bell e Whitley Strieber uscito nel 1999 che descrive in modo spettacolare e angosciante tutti i cambiamenti che potrebbero essere generati dal cambiamento climatico. Emmerich ne restò stregato.

Uscito alla fine nel 2004 e col solito grandi dispiego produttivo di effetti speciali, “L’alba del giorno dopo” fu un po’ un successo a metà: critici cinematografici e soprattutto scienziati storsero un po’ la bocca, parlando di eccessiva e inverosimile spettacolarizzazione, ma anche il pubblico premiò questo lavoro del regista fino a un certo punto. Resta però un merito: è proprio grazie a questo lungometraggio che per la prima volta il dibattito sul “climate change” entra davvero nel dibattito popolare su larga scala.

Poteva essere l’inizio di un filone estremamente corposo. Tanto più che negli anni successivi una ricerca della prestigiosa università statunitense di Yale stabilì che quasi 7 americani su 10 – il primo pubblico di riferimento per l’industria cinematografica – erano preoccupati per gli effetti potenzialmente catastrofici del cambiamento climatico. Non è da sorprendersi: in media, oggi i ragazzi sono testimoni del triplo di disastri naturali causati da alterazioni del clima, rispetto ai loro genitori. La questione c’è, esiste, è tangibile. Eppure la grande macchina del cinema americano a largo consumo sembra ancora oggi relativamente insensibile all’argomento. Come notato dalla giornalista Maddie Stone, firma di punta per The Verge, Washington Post, The Atlantic, National Geographic e molti altri: “È come se il tema del cambiamento climatico avesse toccato il cuore solo di chi scrive, non di chi gira film. Eppure da autori come Kim Stanley Robinson l’industria cinematografica potrebbe prendere degli spunti incredibili”.

Oggi il baricentro industriale dell’immaginario si sta (in parte) spostando dalle grandi produzioni cinematografiche degli storici Studios hollywoodiani ai network capaci di produrre serie, come Netflix, Amazon Prime e altri. Potrebbe essere l’occasione per in rinnovamento del linguaggio e, finalmente, una doverosa attenzione a un tema davvero decisivo per l’umanità. Come dice lo stesso Kim Stanley Robinson, prima citato da Maddie Stone: “Le catastrofi climatiche non devono essere solo una scusa per distopia e catastrofismo, per una narrazione monodimensionale”. Una chiave condivisa al 100% da Daniel Hirnfeld: che su mandato del Natural Resources Defense Council (storico gruppo di pressione sui temi ambientali nato ancora negli anni ’70, con oggi oltre 3 milioni di aderenti) ha un ruolo altamente strategico di lobbying verso l’industria dello spettacolo: “Siamo ancora troppo legati a una visione dei temi ambientali come qualcosa che deve per forza essere catastrofico, con esisti angoscianti. C’è invece molto più spazio per creare qualcosa di molto più costruttivo e, al tempo stesso, parecchio accattivante come storytelling”.

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