Ambiente

L’accordo italo-algerino sul gas e le ripercussioni sul clima

Durante la visita di Mario Draghi in Algeria, i colossi energetici hanno stretto un accordo per aumentare le riserve di idrocarburi dei giacimenti del Paese nordafricano. Dando vita a una possibile carbon bomb
I primi ministri Abdelmadjid Tebboune e Mario Draghi durante un incontro, lo scorso luglio, al palazzo di El Mouradia, ad Algeri
I primi ministri Abdelmadjid Tebboune e Mario Draghi durante un incontro, lo scorso luglio, al palazzo di El Mouradia, ad Algeri Credit: Chigi Palace Press Office/APA Images via ZUMA Press Wire
Tempo di lettura 6 min lettura
16 agosto 2022 Aggiornato alle 21:00

“All the money you made will never buy back your soul”, cantava nel 1963 Bob Dylan contro i magnati dell’industria delle armi.

Oggi potremmo tranquillamente riadattare questi versi per dedicarli ai grandi colossi energetici, con la differenza che qui non si tratta più di salvare la propria anima ma, in modo molto più concreto, direttamente la pelle.

Esattamente un anno fa, il 9 agosto 2021, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ha rilasciato un rapporto, oltremodo allarmante, dove si dichiarava che per avere la possibilità di un futuro vivibile sul nostro Pianeta le emissioni di carbonio dovrebbero essere ridotte della metà entro il 2030 e azzerate entro il 2050. Solo così sarà possibile mantenere l’aumento della temperatura entro i 1,5 gradi ed evitare che la Terra diventi una realistica riproduzione del Monte Fato.

L’obiettivo è ben chiaro e per raggiungerlo esiste solo una strada sicura: bloccare completamente gli investimenti nel campo dei combustibili fossili.

Se è vero che petrolio e gas naturale saranno ancora necessari per tenere in funzione l’economia e la società nel tempo necessario alla transizione energetica, secondo l’ Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) è fondamentale che non vengano più aperti nuovi campi petroliferi e di gas, né (sembra quasi inutile specificarlo, ma tant’è) miniere di carbone.

Purtroppo tra quello che dovrebbe essere e lo scenario reale la distanza è abissale.

Si sarebbe potuto pensare che la guerra in Ucraina e l’aumento vertiginoso dei prezzi di petrolio e gas avrebbe fornito un buono stimolo per dare un’accelerata alla transizione energetica, ma evidentemente era una pia illusione.

Invece di trasformare l’imperativo di liberarsi della dipendenza dal gas russo in quello di liberarsi dalla dipendenza dal gas e basta, quello a cui si è assistito è stata la frenetica ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.

Poco meno di un mese fa, durante la visita di Mario Draghi in Algeria, i colossi energetici Eni, Total, Sonatrack e Oxy hanno stretto un accordo per 4 miliardi di dollari con l’obiettivo di potenziare gli investimenti, aumentare le riserve di idrocarburi dei giacimenti del Paese nordafricano e prolungarne la vita produttiva per altri 25 anni.

Questo accordo porterà a un aumento iniziale di 4 mld m3 di gas per l’Italia, quantità che salirà a 9 mld m3 nel 2023.

Dall’inizio di quest’anno dall’Algeria sono già arrivati nel nostro Paese 12 mld m3 di gas naturale.

Se si considera che nel 2021 l’Italia ha importato 29 mld m3 dalla Russia, è facile capire come Algeri abbia rapidamente soppiantato Mosca come principale fornitore.

Gli accordi presi da Mario Draghi con il premier algerino, va detto, non riguardano solo i combustibili fossili, ma includono tra le altre cose anche le energie rinnovabili. È comunque innegabile che l’aspetto preponderante sia proprio quello che riguarda la spinta degli investimenti per il gas.

Forse 4 miliardi di euro potranno sembrare una misera goccia nel mare dei 103 milioni di dollari al giorno che le dodici maggiori aziende energetiche spenderanno entro il 2030 per finanziare le carbon bomb, ma è pur sempre una goccia che non dovrebbe esserci.

Carbon bomb è qualsiasi progetto di estrazione di idrocarburi che farebbe aumentare la temperatura globale oltre il limite fissato del 1,5 gradi centigradi, causando effetti devastanti per il pianeta e aggravando in modo irrecuperabile la crisi ambientale.

Secondo un’inchiesta del Guardian le bombe climatiche già esplose o pronte a farlo nel prossimo futuro sarebbero 195, ognuna delle quali causerebbe l’emissione di almeno un miliardo di tonnellate di CO2 lungo tutta la sua vita, ovvero l’equivalente di 18 anni delle attuali emissioni a livello globale.

Non serve essere dei geni della matematica per capire che l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi va in fumo. Un po’ come farà il nostro pianeta, insomma.

Secondo quanto rivelato dal Guardian più del 60% delle carbon bomb di cui si conosce l’esistenza sono già attive. Rimane da capire come poter fermare il rimanente 40%.

L’ostacolo maggiore è di tipo politico ed economico.

Secondo la scrittrice e attivista Rebecca Solnit, l’industria dei combustibili fossili è legata a doppio filo non solo con ingenti profitti economici, ma anche con dinamiche che mirano al mantenimento dello status quo.

In breve, chi ha raggiunto posizioni di potere grazie allo sfruttamento di questa fetta del mercato non è troppo incline a gettare la spugna.

A questo va aggiunto il fatto che sono ancora molti i Paesi che dipendono fortemente dall’esportazione di combustibili fossili.

Per l’Algeria, a esempio, il settore degli idrocarburi rappresenta il 94% delle esportazioni e il 40% delle entrate totali del Paese.

Gli investimenti multimiliardari delle compagnie energetiche perderebbero attrattiva (e profitti) solo se i governi prendessero sul serio in tempi rapidi gli impegni presi per ridurre le emissioni. Purtroppo lo scenario dipinto sopra lascia intravedere in futuro molto diverso.

A nulla sono valse le parole di António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ad aprile ha attaccato governi e aziende che si fanno gioco delle decisioni concordate meno di un anno fa dichiarando che “investire in nuove infrastrutture per i combustibili fossili è una follia morale” e chiamando “estremisti” tutti quei Paesi che aumentano la produzione di combustibili fossili, infischiandosene delle conseguenze per tutta la collettività.

Il rapporto dell’Ipcc dello scorso agosto parla chiaro sia per quanto riguarda i problemi che le soluzioni.

Solo azzerando le emissioni si potranno fermare l’aumento delle temperature, lo scioglimento del permafrost, l’acidificazione delle profondità oceaniche e l’innalzamento del livello dei mari.

Alcuni di questi fenomeni potranno addirittura invertire la rotta. Qualcuno nel giro di anni, altri di decenni o secoli, ma questa è l’unica strada percorribile per salvarci la vita.

L’ alternativa è vedere il nostro mondo divorato dalle fiamme.

E neanche i più ricchi fra noi avranno la possibilità di riparare su un pianeta di riserva perché, per parafrasare Bob Dylan, neppure tutti i soldi del mondo potrebbero acquistare ciò che non esiste.

Leggi anche