Diritti

Myanmar: torna l’esecuzione capitale

Quattro attivisti pro-democrazia sono stati giustiziati dal governo a guida militare: si tratta delle prime esecuzioni di questo genere nel Paese da più di trent’anni
I fucili da trapano in legno delle Forze di difesa popolare (PDF) della regione di Mandalay, l'ala armata del governo di unità nazionale del Myanmar (NUG) formato a seguito del colpo di stato del 1 febbraio 2021
I fucili da trapano in legno delle Forze di difesa popolare (PDF) della regione di Mandalay, l'ala armata del governo di unità nazionale del Myanmar (NUG) formato a seguito del colpo di stato del 1 febbraio 2021 Credit: David Mmr/SOPA Images via ZUMA Press Wire)
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26 luglio 2022 Aggiornato alle 07:00

C’erano Kyaw Min Yu, detto Ko Jimmy, e Phyo Zeya Thaw, 53 e 41 anni, tra le quattro persone condannate a morte e giustiziate dalla giunta militare del Myanmar.

Il primo era famoso per il suo attivismo contro il regime del Paese durante le rivolte studentesche del 1988, per cui aveva già scontato diversi anni di prigione in passato. Insieme a sua moglie, la collega Nilar Thein, era considerato uno dei pionieri del movimento pro-democrazia.

L’altro era un artista hip-hop ed ex deputato del partito della Lega nazionale per la democrazia della Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. In autunno un tribunale li aveva giudicati colpevoli di terrorismo ed entrambi avevano fatto ricorso, senza risultati.

Poi c’erano Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, di cui i media internazionali non riportano molte informazioni: si sa che erano stati accusati di aver ucciso una donna, presunta informatrice della giunta militare, e venivano da Yangon, la città più grande dell’ex Birmania, dove erano stati coinvolti in varie proteste contro il regime militare.

Kyaw Min Yu, Phyo Zeya Thaw, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw sono stati giustiziati per aver compiuto “atti terroristici brutali e disumani”, dicono i media statali, in quello che, secondo le Nazioni Unite, sarebbe il primo uso della pena capitale dagli anni Ottanta in Myanmar. Lo ha confermato anche l’ambasciata degli Stati Uniti a Yangon.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ha scritto su Twitter che «le loro famiglie non sono nemmeno state avvertite». La Bbc racconta che la madre di Zayar Thaw l’avrebbe visto venerdì scorso in una videochiamata su Zoom: «Era sano e sorridente. Mi ha chiesto di portargli i suoi occhiali da lettura, il dizionario e dei soldi da usare in prigione». E così ha fatto, lunedì 25 luglio, ma del figlio non c’era più traccia.

L’Associazione di assistenza ai prigionieri politici in Birmania scrive che “parenti e amici sono in agonia per le azioni del dipartimento penitenziario e dei capi della giunta che hanno imposto un blackout informativo dall’interno delle mura di Insein”.

Si tratta della prigione birmana divenuta famosa per le sue condizioni atroci e le torture subite dai prigionieri. Il corrispondente dal Sudest asiatico per il New York Times Richard Paddock, nel 2021, scriveva: “Perhaps fittingly, its name is pronounced insane” (Forse, opportunamente, il suo nome si pronuncia “folle”, ndr).

Il direttore regionale di Amnesty International dell’Asia sud-orientale e del Pacifico, Erwin van der Borgt, ha dichiarato che «queste esecuzioni equivalgono a privazioni arbitrarie di vite e sono un altro esempio dell’atroce situazione dei diritti umani in Myanmar. I quattro uomini sono stati condannati da un tribunale militare in processi altamente segreti e profondamente iniqui». Senza avvocati e a porte chiuse.

Dal sito dell’ong che lotta per proteggere i diritti umani, van der Borgt ha esortato la comunità internazionale a «agire immediatamente poiché si ritiene che più di 100 persone siano nel braccio della morte dopo essere state condannate in procedimenti simili».

La stessa sorte, dunque, potrebbe toccare a molti altri. Le ong temono per i manifestanti arrestati durante le proteste di massa represse dalle forze di sicurezza che avrebbero arrestato quasi 15.000 persone e provocato più di 2100 vittime finora, secondo l’Associazione di assistenza ai prigionieri politici. Ma, secondo i militari, si tratta di un bilancio esagerato, riporta il quotidiano Al Jazeera.

L’esperta di diritti umani Agnès Callamard, direttrice generale del Segretariato internazionale di Amnesty International, che si è detta «devastata» e «disgustata», ha commentato: «Dal colpo di stato militare del febbraio 2021, Amnesty International ha registrato un allarmante aumento delle condanne a morte in Myanmar, come strumento per perseguitare, intimidire e molestare tutti coloro che osano opporsi alle autorità».

Nel 2021, infatti, l’esercito del paese ha preso il potere, cacciando il governo eletto di Aung San Suu Kyi e innescando proteste diffuse che hanno portato a numerosi arresti tra manifestanti, attivisti e giornalisti pro-democrazia. Dall’imposizione della legge marziale in avanti, a marzo dell’anno scorso, l’autorità di processare i civili è stata trasferita a tribunali militari speciali o esistenti, in cui le persone non hanno diritto di appello.

Il governo di unità nazionale del Myanmar, il Nug, che si è formato in risposta al colpo di stato militare dell’anno scorso, ha esortato la comunità internazionale a punire la giunta militare omicida per la sua crudeltà e le quattro uccisioni. Ne fa parte anche la politica birmana Aung San Suu Kyi, da poco trasferita proprio dal tribunale militare agli arresti domiciliari per numerose accuse a suo carico, tra cui corruzione, e che dovrà affrontare altrettanti processi per cui rischia oltre 150 anni di carcere.

Anche Tom Andrews, funzionario delle Nazioni Unite per i diritti umani in Myanmar, ha lanciato un appello, definendo le quattro esecuzioni capitali come «atti depravati» che «devono essere un punto di svolta per la comunità internazionale: cos’altro deve fare la giunta prima che si agisca con forza?».

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