Diritti

Lavori “domestici” in ufficio? Roba da donne

Queste attività (non retribuite) sono quasi sempre in mano alle lavoratrici. Il motivo? Perché più inclini a dire di sì. Come spiega il libro The no club: putting a stop to women’s dead-end work
Credit: Mindspace Studio/unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
20 luglio 2022 Aggiornato alle 13:15

Scrivere i verbali delle riunioni, selezionare gli stagisti, organizzare cene aziendali, raccogliere i soldi per i regali di compleanno o di pensionamento, allestire l’ufficio per le festività, accogliere i visitatori… negli uffici, non importa se pubblici o privati, sono quasi sempre le dipendenti ad assumersi l’onere (e mai gli onori) dei “lavori domestici d’ufficio” e dei tantissimi incarichi a basso valore che esulano dalle mansioni lavorative vere e proprie. Ore e ore spese in attività che non costano solo tempo e fatica – senza portare nulla in cambio - ma che impediscono di fare carriera e fanno aumentare ancora di più il gender gap.

A dirlo non è solo l’esperienza empirica della quasi totalità delle donne che lavorano, ma anche un’analisi condotta da Lise Vesterlund, professoressa di economia all’Università di Pittsburgh, e Linda Babcock, Brenda Peyser e Laurie Weingart, autrici di The No Club: Putting a Stop to Women’s Dead-End Work, nato proprio dalla presa di coscienza dell’autrice delle disparità tra le sue attività quotidiane e quelle dei suoi colleghi uomini.

«Nell’intera giornata, avevo un’ora dedicata alla ricerca, mentre George ne aveva sette. Aveva solo due impegni non di ricerca, mentre io ne avevo sette! Come mai il suo programma era così concentrato sulla ricerca, una parte fondamentale di entrambi i nostri lavori, quando il mio non lo era? Ho guardato tutte le cose sul mio calendario e ho capito che avevo acconsentito a ognuna di esse. Come è successo? Avevo bisogno di un intervento, quindi ho contattato quattro delle mie amiche per chiedere aiuto».

Da questo incontro – e dalla consapevolezza che quello di Vesterlund non era un caso isolato ma una condizione condivisa - è nata ricerca quasi decennale fatta di studi presso il Laboratorio di economia sperimentale (PEEL) dell’Università di Pittsburgh: sondaggi e interviste con donne in tutti i settori e ruoli e lavoro a stretto contatto con diverse organizzazioni per raccogliere dati e comprendere la loro esperienza con il problema.

Un lavoro di ricerca enorme, da cui è emerso un altro dato allarmante: non solo le donne sono (molto) più propense ad accettare di svolgere gratuitamente questo tipo di incarichi, ma questo è uno dei motivi per cui uomini e donne non avanzano allo stesso ritmo. Il tempo speso in queste attività, infatti, fa perdere alle seconde promozioni e aumenti salariali, tanto che questi compiti vengono definiti “non-promotable”, «perché sebbene fossero importanti per le nostre organizzazioni, sottraevano tempo alle attività che erano fondamentale per il nostro lavoro e contavano per il nostro avanzamento».

Capire il perché di questo squilibrio non è difficile, basta dare uno sguardo ai numeri di questo lavoro invisibile: in un’azienda di consulenza analizzata dalle ricercatrici, indipendentemente dall’anzianità di servizio, il carico totale era di quasi 200 ore ogni anno, pari a oltre un mese di lavoro. Ore che i giovani uomini hanno potuto investire in compiti più importanti (e più remunerativi), lasciando indietro le coetanee occupate a impegnarsi delle attività di basso livello. Per le donne con una seniority maggiore, la situazione era ancora peggiore: il tempo speso per queste attività non veniva sottratto al normale lavoro d’ufficio, ma vi si aggiungeva, facendo lievitare il numero delle ore lavorate senza un conseguente incremento dello stipendio.

Ma come si arriva a questo enorme gap? Molto semplicemente, alle donne viene chiesto più spesso di occuparsi queste attività e le donne sono più restie a rifiutare, perché - visto che si dà per scontato che accettino – alla sola idea di dire “no” si innesca un meccanismo perverso che genera senso di colpa. Non solo: quando a rifiutare è un uomo, il compito viene immediatamente dirottato verso una collega, nella quasi assoluta certezza che lei non rifiuterà.

Non si tratta, quindi, di una scelta individuale, ma di un’aspettativa collettiva che spinge le donne a offrirsi come volontarie il 48% più spesso degli uomini - secondo un esperimento - non solo perché ritenute geneticamente più “predisposte” per questo tipo di attività, ma proprio in virtù della disponibilità illimitata che caratterizzerebbe il genere femminile e che porta ad assommare al lavoro produttivo il lavoro riproduttivo, di cui le attività “non-promotable” non sono che un’estensione negli spazi dell’ufficio. Per questo, imparare a dire di no è importante, ma non basta. Soprattutto, non è la soluzione.

Il problema non è delle o nelle donne, ma strutturale e organizzativo. Non solo perché quella che deve essere modificata è l’aspettativa sociale che porta a ritenere che le donne debbano dire di sì a queste attività non retribuite e non riconosciute che frenano la loro crescita professionale, ma anche perché, spiegano le ricercatrici, «il lavoro non-promotable ha un effetto negativo sulla carriera e sulla vita delle donne, ma ha anche un impatto negativo sulla produttività e sulla redditività delle loro organizzazioni. Fissare la distribuzione degli incarichi non-promotable è nell’interesse sia dei dipendenti che delle organizzazioni e nel libro mostriamo come questo può essere risolto in modo coordinato, dal basso verso l’alto e dall’alto, con le donne che danno il via a questo processo e le loro organizzazioni che si assumono la responsabilità del cambiamento».

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