Futuro

Le invenzioni sono spade a doppio taglio

Il riconoscimento della personalità di ciascun individuo è principio contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e la tecnologia dovrebbe aiutare. Ma spesso non lo fa.
Credit: Erick Butler/unsplash
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18 luglio 2022 Aggiornato alle 06:30

Come spesso accade di fronte ai nuovi fenomeni, il mondo si divide tra coloro che tentano di sminuirne il carattere innovativo, riconducendolo a quanto sino allora conosciuto (secondo il noto detto “non c’è nulla di nuovo sotto il sole”), e altri che gridano al miracolo e vedono nuovi e radiosi orizzonti.

L’innovazione tecnologica non sfugge al paradigma. Le contrapposte opinioni sull’innovazione derivante dalla blockchain, ne sono un esempio.

Alcuni arrivano a ipotizzare di fatto il superamento di molti sistemi di governance e di attestazione della pubblica fede, che sostituiranno gli schemi di certificazione sinora conosciuti, altri vedono nelle criptovalute, legate come sono alla blockchain, lo strumento che finalmente emanciperà il mondo dallo strapotere degli interessi finanziari.

Di contro c’è chi lamenta la insostenibilità energetica di tale tecnologia, la possibilità di aggiramento della pretesa immutabilità, e chi teme l’utilizzo fraudolento delle criptovalute, come se il denaro non si prestasse anch’esso al fenomeno del riciclaggio.

Altri ancora, come il sottoscritto, si chiedono se dall’innovazione possa discendere l’attuazione di quel diritto di natura da sempre vagheggiato dai cultori del diritto e dai filosofi senza mai giungere a un’effettiva validazione pratica che vada oltre il mondo delle idee.

Il campo di prova nella specie è quello del riconoscimento dell’identità di ogni individuo, il riconoscimento della sua peculiarità e del suo essere unico, che spesso è rappresentato dall’attribuzione di un nome e cognome. Del resto cos’è un nome se non lo strumento che distingue l’individuo dalla specie cui appartiene? Quel nome che negli episodi cruenti dell’umanità è trasformato in numero proprio al fine di annichilire la persona e la sua individualità.

Il riconoscimento della personalità di ciascun individuo è principio contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, così come approvata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, non fonte di diritto ma strumento di soft law che dovrebbe essere universalmente riconosciuto per la fondatezza della ragione che lo sostiene.

L’articolo 6, in italiano, testualmente recita “ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica”, traduzione che non regge la versione in inglese “everyone has the right to recognition everywhere as a person before the law”: il diritto a essere riconosciuto ovunque come persona davanti alla legge.

Ma cosa accade quando il principio non trova recezione nei singoli ordinamenti nazionali? Per esempio perché si fa parte di minoranze non riconosciute e, anzi, avversate dal potere dello stato cui si appartiene? Cosa succede quando è lo stesso ordinamento cui si appartiene a non volere riconoscere il soggetto? La negazione sovrana di quel soggetto che a mente della dichiarazione e del diritto naturale e, ancor prima, della ragione pura, esiste prima e a prescindere dal fatto che il diritto positivo lo riconosca come tale.

Il tema non è peregrino se si pensa alla sorte che perseguita i Rohingya in Myanmar e si tiene presente che, tra gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, si giunge a includere il riconoscimento di una identità legale per tutti (SDG 16.9).

In questo caso la tecnologia dovrebbe in effetti aiutare a sostituire attraverso sistemi decentrati, ovvero non basati su un sistema centralizzato di controllo e validazione, l’assenza di riconoscimento da parte di un singolo stato.

Da qui al passo dell’utilizzo di registri distribuiti decentralizzati, lo spazio è davvero breve.

In questo senso, in linea teorica, la blockchain potrebbe assurgere veramente a sistema di attuazione di quel diritto di natura che non richiede la forza di uno stato sovrano per essere riconosciuto.

Il tema è affascinante o almeno affascina chi scrive. Da qui è sorta la discussione e gli approfondimenti nati dal confronto con la mia amica Aileen Schultz, senior manager a Thomson Reuter e fondatrice e presidente del World Legal Summit, organizzazione con la quale spesso The Thinking Watermill Society (della quale sono vice presidente) si confronta per affrontare i temi giuridici e anche etici relativi all’innovazione tecnologica: quell’innovazione tecnologica che può essere strumento di controllo di massa ma anche fonte di certezza volta a superare i confini degli ordinamenti nazionali per una tutela rafforzata dei diritti umani.

Sul tema in particolare del diritto all’identità rinvio, quindi, al capitolo scritto a quattro mani con Aileen Schultz dal titolo Human Rights in the Digital Era: Technological Evolution and a Return to Natural Law, parte del libro Digital Humanism, Human-Centric Approach to Digital Technologies a cura di Marta Bertolaso, Luca Capone e Carlos Rodríguez-Lluesma, edito da Springer.

Mi piace qui solo soffermarmi sul concetto che riguarda un poco tutte le invenzioni umane, il fatto che esse siano spade a doppio taglio. Sta a noi regolarne l’uso e proporci gli interrogativi etici a esse connesse: la mera negazione o rifiuto non impediranno mai l’uso scellerato delle medesime, ma ci priveranno di strumenti di tutela e controllo e anche della possibilità di migliorare davvero il mondo.

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