Diritti

Svezia e Finlandia nella Nato e le ricadute sul popolo curdo

La giornalista Benedetta Argentieri e la studiosa Nicoletta Vallorani hanno spiegato a La Svolta cosa comporta il memorandum Nato di Svezia e Finlandia e gli effetti sulla rivoluzione delle donne in Kurdistan
Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il ministro degli affari esteri finlandese Pekka Haavisto e la ministra degli affari esteri svedese Ann Linde durante una conferenza stampa dopo la firma dei protocolli di adesione di Finlandia e Svezia, il 05 luglio 2022
Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il ministro degli affari esteri finlandese Pekka Haavisto e la ministra degli affari esteri svedese Ann Linde durante una conferenza stampa dopo la firma dei protocolli di adesione di Finlandia e Svezia, il 05 luglio 2022 Credit: EPA/STEPHANIE LECOCQ
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14 luglio 2022 Aggiornato alle 21:00

Ormai a livello internazionale non ci sono più dubbi. Quello di Recep Tayyip Erdoğan all’Alleanza Atlantica è un vero e proprio ricatto. La candidatura di Svezia e Finlandia che, di fronte al concretizzarsi del pericolo russo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, hanno deciso di abbandonare la loro storica politica di neutralità è stato al centro del vertice tenutosi a Madrid alla fine del mese scorso.

Ankara aveva inizialmente minacciato il veto per via del sostegno che i due Paesi scandinavi hanno sempre dimostrato alla causa del Kurdistan, ma i toni si sono abbassati in fretta quando il 28 giugno Svezia, Finlandia e Turchia hanno firmato un memorandum in dieci punti nel quale rimarcano l’importanza di adeguarsi ai principi comuni di solidarietà e difesa collettiva su cui si basa la NATO.

Stoccolma e Helsinki si sono dette disposte a offrire pieno supporto ad Ankara nei suoi sforzi per combattere contro le minacce alla sicurezza interna della Turchia, rifiutando e condannando il terrorismo in ogni sua forma e manifestazione.

All’atto pratico Svezia e Finlandia dovranno ritirare il loro sostegno alle Unità di Protezione Popolare (YPG) e al Partito dell’Unione Democratica (PYD), attivi nella Federazione del nordest della Siria, confermare l’inserimento del Partito dei lavoratori Curdi (PKK) nella lista delle organizzazioni terroristiche, prevenendo e ostacolando le attività di gruppi o singoli a esso affiliati, rispondere alle richieste turche di estradizione e deportazione di soggetti sospettati di terrorismo e sollevare l’embargo di armi imposto alla Turchia nel 2019 dopo la terza guerra di aggressione nel nordest della Siria.

«La Turchia ha chiesto l’estradizione di 73 persone - ha spiegato a La Svolta Benedetta Argentieri, giornalista, regista, esperta di conflitti e Medio Oriente oltre che di tematiche legate al femminismo, che ha seguito sul campo la guerra in Iraq e in Siria - Persone curde, non necessariamente di origini turche (e questo già ci deve far suonare un campanello di allarme) che sono in questi Paesi da anni, hanno la residenza e sono state accolte come richiedenti asilo».

«Il fatto che le tutele garantite dal diritto internazionale possano essere cancellate con una firma è abbastanza particolare, per non dire offensivo, perché significa che questo ordine internazionale funziona solo quando ci fa comodo. Ma non può funzionare così, soprattutto se pensiamo che la NATO dice di essere portatrice di pace e di democrazia, e qui vedi già subito la contraddizione», ha aggiunto.

«La Turchia - continua - è in assoluto il membro più problematico dell’Alleanza. In Turchia non c’è libertà di stampa, non c’è libertà di dissenso, le persone non possono scendere in piazza; nel momento in cui Erdoğan perde un po’ di consenso fa rinchiudere gli oppositori politici… Insomma si è trasformata in un regime. E questo stesso membro problematico riesce a mettere in scacco tutta l’Alleanza e a obbligare due Paesi ad attuare delle politiche finora lontanissime dalla loro vita politica».

«Questo è molto pericoloso, non solo per i curdi, ma anche per noi. Che tipo di proiezione avremo? Che cosa succederà se continuiamo con questa politica iper-utilitaristica per cui ci alleiamo con delle popolazioni e poi le buttiamo sotto all’autobus quando è più conveniente? Facendo così viene meno proprio la fiducia».

Su questo punto si dice d’accordo anche Nicoletta Vallorani, autrice e docente ordinaria di Letteratura Inglese dell’Università degli Studi di Milano, studiosa di Gender Studies, Femminismo e che si è occupata molto della Rivoluzione delle Donne nella regione del Rojava, nel nordest della Siria.

«Questo memorandum è colpevole a vari livelli - dice - Va sotto il nome di negoziazione ma di fatto assomiglia di più a un ricatto, e impone una clausola importante per l’accettazione di Svezia e Finlandia in un organismo internazionale che dovrebbe prendere atto del fatto che questa richiesta viene da un Paese sottoposto a un regime dittatoriale. Questa regola passa sopra la testa del desiderio popolare, ignorando completamente gli aspetti positivi dell’esperimento politico curdo, come a esempio il fatto che le associazioni come il PKK e il YPG hanno combattuto attivamente contro l’ISIS quando questo era un nemico comune».

«Questo quindi è un primo aspetto, buttare a mare quello che in questo momento, economicamente e dal punto di vista degli equilibri politici non serve più. L’altra questione che per me e per noi che queste cose le sudiamo è estremamente visibile, è che questa decisione ci rimbalza indietro alla fine degli anni ‘70, quando Edward Said pubblica Orientalism e accusa giustamente l’Occidente di fare di tutta l’erba un fascio. Insomma torniamo a etichettare qualunque mediorientale come terrorista, indipendentemente dalla fede che professa», ha spiegato a La Svolta.

«Questa etichetta imposta a tutto ciò che viene dal Medioriente è mortificante dal punto di vista culturale. È una posizione molto triste per noi studiosi e studiose, ed è molto triste per le donne in generale perché l’esempio del Rojava è un esperimento di rivoluzione democratica che non esiste in nessun altra parte del mondo. È la prima dimostrazione di come può funzionare un principio femminile non necessariamente separatista, ma che mette assieme le due componenti maschile e femminile nella gestione politica di una comunità».

Il confederalismo democratico è il paradigma politico elaborato da Abdullah Öcalan, leader curdo e fondatore del PKK, su cui si basa tutta l’esperienza politica del Kurdistan: pilastro fondamentale è la liberazione della donna. Per Öcalan “la donna è stata la prima nazione oppressa” e dunque solo attraverso la sua liberazione è possibile rovesciare l’attuale sistema di dominio e oppressione.

Fin dal 1978, anno di nascita del PKK, vennero fatti enormi sforzi per includere le donne in ogni area della lotta. Non fu un cammino facile perché nonostante la visione illuminata di Öcalan, gran parte della società curda rimaneva legata a una struttura patriarcale e non accettava facilmente che le donne potessero essere guerrigliere, imbracciare un fucile, organizzarsi autonomamente e portare avanti la rivoluzione.

Nonostante queste resistenze, il ruolo delle donne crebbe enormemente e fu cruciale la loro resistenza fuori e dentro le prigioni durante la dura repressione dello stato turco negli anni ’90 che le prese di mira in particolar modo, nel tentativo di spezzare la loro volontà e quella dei loro compagni.

È interessante notare come nel prendere parte attiva alla lotta del movimento, grazie al grande lavoro di riflessione e di autoformazione, le donne curde mantennero sempre un ruolo ben distinto, e anche quando assunsero responsabilità politiche e militari fino a quel momento riservate agli uomini non divennero mai semplici caricature dei loro compagni maschi.

Come ha detto Heval Çiğdem Dogu, esponente del coordinamento della Comunità delle Donne del Kurdistan (KJK): «La resistenza determinata e la lotta delle donne hanno dato grande coraggio alla società. È significativo che l’insurrezione nella società e le reazioni di massa delle donne siano avvenute nella stessa fase. Questo mostra chiaramente la correlazione secondo cui la società non può liberarsi senza le donne e le donne non possono liberarsi senza la società».

Il confederalismo democratico è oggi il modello politico e organizzativo della regione del Rojava (nel nordest della Siria) che insieme al Bakur (sudest della Turchia), al Başur (nel nord dell’Iraq) e al Rojhilat (nel nordovest dell’Iran) compone il Kurdistan, smembrato tra i quatto Stati con l’accordo di Losanna del 1923. Negli anni le forti politiche di assimilazione promosse dagli stati di Iran, Turchia, Iraq e Siria contro il popolo curdo furono spesso accompagnate da repressione e massacri.

In particolare Ankara porta avanti da anni una politica di forte aggressione nei confronti dei territori curdi (anche quelli fuori dai propri confini nazionali) e il timore è che il memorandum firmato con Svezia e Finlandia possa dare il via a una nuova guerra di aggressione nel nordest della Siria, mettendo in pericolo l’esperienza del confederalismo democratico.

Quali sono secondo Benedetta Argentieri i possibili effetti che il memorandum avrà sulla vita delle persone curde, in patria e all’estero? «Il memorandum - ha risposto - influisce direttamente solo sulle persone che cercano di scappare o che cercano l’esilio e che hanno sempre pensato che i paesi nordici come Finlandia e Svezia fossero dei porti sicuri. Per quanto riguarda il territorio del Kurdistan il rischio di cui si parla oggi è una possibile nuova aggressione turca per la conquista del territorio».

«Però - continua - non dobbiamo dimenticarci che la Turchia non ha mai smesso di fare la guerra nel nordest della Siria: in tutti questi anni ci sono state uccisioni mirate, sono stati chiusi i rubinetti dell’acqua, c’è stata una guerra psicologica costante; i droni continuano a sorvolare la zona e colpiscono indiscriminatamente sia personaggi militari delle forze democratiche siriane alleate con gli Stati Uniti, persone che hanno combattuto l’ISIS e che vengono fatte brillare in un battito di occhi sia civili. Questo avviene quotidianamente ed è importante non dimenticarlo perché altrimenti tutta la narrazione inizia a essere sfalsata»

«Noi sappiamo grazie a fonti ONU che nelle zone di Afrin e Serekanyie è stata fatta una vera e propria pulizia etnica. Tutta la popolazione autoctona curda è stata fatta scappare o eliminata in altre maniere con violenze, soprusi e omicidi e al loro posto sono stati insediati rifugiati siriani di altre zone, di estrazione araba, apportando un cambio etnico importante».

«Afrin - prosegue - non è mai stata toccata dalla guerra civile, era un porto sicuro in tutta la Siria dove non si è mai espansa la violenza. La violenza l’ha portata la Turchia nel 2018 e nei territori di Serekanyie e Girê Spî, i 30 km che ha conquistato nel 2019: prima di tutto ha messo palestinesi e arabi nelle case e nei territori dei curdi iniziando a cambiare la lingua della gente, poi hanno messo l’ospedale Codiv per mezza Turchia proprio lì. Di fatto quella zona è un protettorato della Turchia e non viene più considerata zona siriana».

«I gruppi che controllano questo territorio sono banditi e milizie islamiche che spesso e volentieri combattono fra di loro, si uccidono, insomma sono posti non sicuri e le persone scappano. Chi rimane sono jihadisti, miliziani e milizie islamiche», conclude.

E quali saranno le reazioni della popolazione curda e dei gruppi politici come il PKK e le conseguenze per il progetto democratico? «La reazione - spiega Argentieri - naturalmente è come sempre di resistenza. Poi per quel che riguarda il PKK, che è una cosa diversa, Erdoğan sta conducendo una guerra sulle montagne nel Kurdistan iracheno con l’obiettivo di prendere il quartier generale del partito. Negli ultimi cinque anni ha stabilito almeno 40 basi turche. Queste sono fasi di occupazione. È vero che noi ci immaginiamo la guerra ancora come se fosse la seconda guerra mondiale, ma i conflitti del 2022 sono diversi da quelli degli anni ‘40 perché è cambiata la tecnologia e sono cambiate le strategie».

«In ogni caso - continua - è evidente che ogni volta che ci sono incursioni di questo genere il progetto democratico viene spazzato via, e chi rimane a comandare sono le milizie islamiche con tutto quello che comporta, cioè la perdita di tutto ciò che è stato costruito in questi dieci anni, non solo dalle persone curde ma dall’amministrazione autonoma in generale, perché il progetto politico non riguarda solo loro ma anche città a maggioranza araba, come a esempio Raqqa, hanno abbracciato il confederalismo democratico e credono nell’autogoverno come alternativa al regime e alle milizie islamiche».

Secondo Argentieri il memorandum è anche pericoloso per come cambia la percezione delle organizzazioni e le persone vicine alla causa curda. «L’altra cosa importante e preoccupante del memorandum - spiega - è come viene estesa l’ideologia di terrorismo. Perché qui non si sta parlando di singoli soggetti che hanno commesso dei reati, ma si tratta dell’ideologia. Le persone o i gruppi che sostengono il nordest della Siria o la rivoluzione in Kurdistan in generale sposano una determinata ideologia che ha come pilastri la democrazia diretta, l’ecologia e la liberazione delle donne (queste sono le idee fondanti del confederalismo democratico); chiunque possa essere riconducibile a queste idee viene considerato o considerata terrorista, e questo vuol dire che per assurdo tutti i gruppi di solidarietà a un certo punto potrebbero essere ritenuti organizzazioni terroristiche».

Anche la professoressa Vallorani ci racconta cosa pensa succederà alla Rivoluzione delle donne, che cosa perderemo come donne e come società se l’occupazione turca riuscisse a spezzare l’esperimento democratico nel Kurdistan. «Naturalmente sia le donne che la società perderebbero moltissimo, ma in linea di massima secondo me Jineologî (l’organizzazione che si basa sulla scienza delle donne teorizzata nel 2008 e che si basa su quarant’anni di esperienza del Movimento delle donne curde, ndr) è già una forma di associazionismo e di vita molto diffusa e credo che da un certo punto di vista verrà rafforzato nella giustizia dei suoi principi che io stessa, nonostante la mia generazione non sia quella che ha prodotto questo esperimento, trovo assolutamente condivisibili perché propongono un’idea di comunità completamente diversa».

«Dall’altro, il rischio potente che io vedo come studiosa femminista è che questo tipo di associazionismo possa venire criminalizzato e attaccato mediaticamente. C’è una spaccatura visibile, soprattutto in Italia, tra il femminismo di un tempo, le persone intellettuali e quelle che ragionano secondo un’idea di femminismo assolutamente occidentale e che io trovo ormai vecchia e la mobilitazione di base».

«L’associazionismo di Jineologî nel nostro Paese - continua - è estremamente vivo; forse il difetto che vedo da fuori è che c’è una certa tendenza all’isolazionismo. Queste comunità di donne che sono fiorite un po’ in tutta Italia che si trovano in workshop, seminari e che portano avanti esperienze profondamente comunitarie, sono ancora invisibili e c’è davvero il pericolo che siano spinte verso la clandestinità. Se questo memorandum diventa operativo in contesti come la Svezia e la Finlandia che si erano manifestati come più aperti e più civili, è chiaro che in Paesi come l’Italia, dove già c’è una fortissima resistenza rispetto al femminile e al femminismo, alla riflessione sul genere e alla parità di genere, una propaganda mediatica semplicistica può provocare delle lacerazioni sociali molto pesanti».

Ricollegandosi a un suo intervento fatto nel 2020 a proposito dei punti di contatto tra l’ideologia della Rivoluzione delle donne nel Rojava e i concetti contenuti nelle Tree ghinee di Virginia Woolf, dove aveva sottolineato l’importanza di non scindere lo studio e l’attività intellettuale dalla vita vera (questo è anche un punto importantissimo nel Movimento per la liberazione del Kurdistan, dove la riflessione e l’auto-formazione sono fondamentali per guidare l’azione e non rimangono mai fini a se stesse), ci spiega cosa può fare la comunità intellettuale e il movimento femminista per mediare questi possibili attacchi all’associazionismo e al modo di vivere ispirato alla rivoluzione del Kurdistan in Italia e più in generale in Occidente.

Occuparsene, è la sua risposta immediata, «occuparsene a qualsiasi livello e uscire dall’isolamento. Zerocalcare a esempio lo fa ed è paradossale che questo interesse così forte sia passato attraverso un genere artistico che è sempre stato snobbato dall’intellighenzia e tramite un profilo che è il contrario dell’intellettuale, nel senso che Zerocalcare non si è mai presentato come tale. Se io mi guardo in giro non vedo un grande dibattito, non trovo, se non molto en passant, profili di intellettuali, donne o uomini, che si siano occupati e occupate in profondità dell’argomento o di contraddire il sentire dominante rispetto a questo tipo di associazionismo».

«Penso che ognuno e ognuna di noi debba fare nel suo piccolo il lavoro necessario in modo che se ci deve essere un’accettazione o un rifiuto di questo tipo di esperienza questa avvenga in modo documentato, e non sulla base di quattro frasi fatte trovate su internet. Non tutte le persone possono andare a combattere o solo passare del tempo in Kurdistan per fare esperienza diretta, ma ci sono comunque molti documenti (Tamu Edizioni per esempio ha pubblicato recentemente un volume molto completo, Jin, Jiyan Azadi), e se è vero che le ragazze di Jineologî Italia non si fanno pubblicità è anche vero che sono comunità aperte e non è difficile informarsi o partecipare.

«Quello che possiamo fare noi, e quello che io rivendico, è cercare di documentarsi il più possibile, perché prima di parlare delle cose bisogna conoscerle, e coloro che fanno il nostro mestiere, intelletuali, giornalisti e giornaliste, educatori, educatrici, hanno il privilegio di poter diffondere informazioni che siano attendibili, che non devono per forza essere contrarie al sentire dominante, ma devono essere documentate, altrimenti non servono a niente», aggiunge.

E conclude con una frase che riassume l’impegno che dovremmo prenderci come singoli individui e come società, di fronte a questo accordo preso a scapito di un popolo di donne e uomini che lottano da anni per la libertà e la democrazia: «Questo lo possiamo fare, lo dobbiamo fare anche se è poco perché tanti poco insieme fanno una mobilitazione collettiva e questo può cambiare le cose».

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