Culture

Faiella: «Social, opposto di socievolezza»

La protagonista della nuova pellicola “Le voci sole” ha raccontato ai microfoni della Svolta tutti i suoi dubbi (e certezze) sul mondo virtuale. Sul modo in cui i giovani, e meno giovani, lo vivono e sui rischi di un suo uso poco consapevole
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10 luglio 2022 Aggiornato alle 13:00

“A causa della pandemia, Giovanni (interpretato da Giovanni Storti) si ritrova senza lavoro. Costretto a emigrare in Polonia per cercare una nuova occupazione, resta in contatto con la moglie (Alessandra Faiella) e il figlio (Davide Calgaro) grazie a lunghe videochiamate quotidiane in cui la donna gli insegna a cucinare da remoto. Quando una di queste telefonate diventa inaspettatamente virale in rete, la coppia raggiunge una popolarità che pare la soluzione di tutti i loro problemi economici. Presto però questa botta di fortuna si trasformerà in una trappola…”. Così recita la sinossi ufficiale di “Le voci sole”, opera prima diretta da Andrea Brusa e Marco Scotuzzi.

Nelle nostre sale a partire dal 4 luglio è stata l’occasione per approfondire con la protagonista femminile, Alessandra Faiella, alcuni argomenti affrontati dal film, che ci toccano molto da vicino, anche più di quanto si possa immaginare.

A un tratto sentiamo «Rita e Giovanni di internet». Come descriverebbe la Rita iniziale e quella dopo quest’avventura in rete?

Questa trappola dei social è qualcosa che sento in maniera molto forte… Secondo me è devastante.

In questo periodo tanti adolescenti hanno problemi depressivi di vario tipo, sicuramente derivanti dal lockdown vissuto e, di conseguenza, alla mancanza di socialità, però molto rinforzati dall’uso smisurato dei social.

Si chiamano ‘social’ ma, se guardiamo in profondità, sono l’opposto di ciò che suggerirebbe il termine e mi riferisco a parole come socievolezza e società, lì avviene una socializzazione soltanto virtuale.

A mio parere sta portando a degli effetti molto preoccupanti, basti pensare ai miti che si creano connessi alla bellezza, se non si è abbastanza belli/e si modificano le foto o i video, senza contare il consumismo dilagante. Ne sono vittime senza dubbio i giovani, non a caso nel film il ‘Mefistofele’ della situazione è interpretato dal figlio, il quale, non per cattiveria, ma proprio perché figlio dei nostri tempi, è colui che conduce nella discesa agli inferi.

In questa trappola possono rimanere imbrigliati gli adulti più ingenui, con meno strumenti culturali.

Nel caso di Rita ci troviamo di fronte a una persona che ha avuto molto poco dalla vita e questo non sarebbe un problema in un’altra società, come quella di un po’ di tempo fa in cui il lavoro bastava a trasmettere la propria dignità professionale. Adesso diventa una ‘vergogna’ non avere quanto gli altri: è chiaro che un po’ di soldi fanno bene a tutti, però quella trappola di esibizionismo e narcisismo - un altro male di oggi - la porta a illudersi che lì possa avere una rivalsa economica e sociale. Non si accorge di quanto la veloce scalata sociale sia effimera e sarà colei che pagherà il prezzo più alto.

Nella prima parte vediamo la vera Rita, colei che poi Giovanni dirà (in un momento clou): «Adesso ti riconosco, ho sentito la tua vera voce». Aver interpretato questo personaggio così ingenuo mi ha fatto molta tenerezza sia nel prima che nel dopo e penso, appunto, all’‘ubriacatura’ da social.

All’inizio è anche tenera nel cercare a insegnare al marito un contatto fisico, seppur a distanza.

È molto interessante questo viraggio: come il telefonico e la rete da strumenti di relazione per superare la lontananza si trasformino in un inganno. Non voglio demonizzare tutti i mezzi tecnologici che abbiamo oggi, perché se usati nel modo giusto possono davvero aiutarci: a esempio dovevo ripassare con il mio compagno di scena dello spettacolo “Coppia aperta, quasi spalancata” e lo abbiamo fatto da remoto. Da un certo punto di vista, possono anche avvicinare gli esseri umani; il problema nasce quando si trasformano in un mezzo di separazione, quando uno dei due prende il sopravvento e scivola verso lo sfruttamento dell’immagine così superficiale.

In ciò che affermava prima rispetto ai ragazzi si sentiva coinvolta anche in quanto madre?

Certamente. Su di loro hanno un forte effetto a livello di concentrazione e di bombardamento di stupidità… Ormai è un meccanismo incondizionato: si prende in mano il cellulare in ogni momento e questo, ovviamente, distoglie dalla lettura, dallo studio e dai rapporti sociali: il che è davvero pericoloso. Non lo dico con moralismo, ma sono stati effettuati degli studi scientifici che hanno dimostrato come un utilizzo massiccio e prolungato crei problemi al cervello per cui prendere un libro per studiare qualcosa per cui è richiesto un approfondimento diventa sempre più difficile.

Bisognerebbe interrogarsi maggiormente e, invece, mi sembra che non se ne parli abbastanza.

Come artista quale tipo di rapporto ha coi social?

È un po’ ambivalente, da un lato non mi appartiene realizzare video che abbiano quella destinazione anche se mi viene chiesto per promuovere lo spettacolo di turno. Cerco moltissimo di tenere la vita privata da tutto ciò che va su internet per cui ne faccio un uso professionale comunicando, a esempio, l’uscita del film oppure dando notizie sul mio prossimo progetto in teatro.

Nelle note di produzione ho letto che avete dovuto rimandare spesso a causa della pandemia, poi anche le difficoltà nel girare (in particolare all’inizio quando non si era trovata una quadra).

È stato un momento abbastanza difficile sul piano professionale. Nel caso de “Le voci sole” è stato traumatico: la mattina avevamo cominciato a girare e uno dei registi è arrivato molto intristito riferendoci che un tecnico era risultato positivo al Covid. Come impatto non sapevamo come fare ed è stata dura perché non si sapeva neanche quando avremmo ripreso: giustamente è stato bloccato tutto. Va detto che, spesso, i problemi si rivelano delle opportunità per cui sono state riviste delle scene e anche noi attori abbiamo fatto sedimentare maggiormente i personaggi.

Torna la condizione di solitudine che abbiamo vissuto e il film in questo è molto esemplificativo sia rispetto alla spiegazione data (e cioè le persone che commentano negativamente sui social) sia in merito ai messaggi vocali tra voi.

La solitudine gioca un ruolo molto importante: c’è quella di Giovanni che si ritrova in Polonia da solo. Noi proviamo empatia per un nostro connazionale che va all’estero, però, se ci soffermiamo, è la stessa situazione che vivono tanti migranti che vengono in Italia, lontani dalla propria patria. Pure la madre e il figlio, pur vivendo insieme, soffrono molto l’isolamento: l’espulsione da questo mondo immaginario li getta nella solitudine assoluta per cui non trovano più agganci nella realtà.

Proprio perché linput proviene dallarte, cosa si può fare affinché non si fermi a uno spettacolo o al vostro film?

Come sempre le forme artistiche servono da stimolo, ci mostrano la realtà così com’è, trasfigurando la in modo drammatico o comico. Ho la sensazione che in Italia si attribuisca all’arte ancora un ruolo superficiale e tutte le problematiche emerse durante il lockdown connesse alla nostra professione (precaria, intermittente e tanto altro, ma non vorrei annoiare i lettori) dipende dal fatto che abbiamo una legislazione per i mestieri dello spettacolo molto diversa dagli altri Paesi europei: in Francia esiste una tutela che noi ci possiamo sognare.

L’arte è fondamentale perché può aiutare a cogliere cose che non si vedono di primo acchito, a entrare in alcune problematiche in modo leggero e piacevole, ma, nello stesso tempo, emergono le questioni.

Poi sta un po’ a tutti noi affrontare i punti.

Non possiamo attribuire la responsabilità sempre alla politica o alla religione o ai media; è necessario che tutti noi facciamo qualcosa.

Un esempio: quando vedo dei genitori che danno a un bambino di 6/7 anni il tablet ‘mi sento morire’ perché quelli sono gesti compiuti con superficialità che creeranno dei danni. È necessario che le persone più preparate facciano partire un dibattito, che deve essere serrato e diffuso.

Spesso il problema degli intellettuali è che rimangono ‘confinati’ su alcuni giornali e non arrivano alla gente comune, bisogna passare dalla tv alla radio per trasmettere il messaggio e rilanciare la questione. Magari tanti scienziati che sono invitati in trasmissioni per parlare del Covid, adesso che non siamo nella fase dura degli inizi e dei lockdown, potrebbero affrontare le neuroscienze e le loro conseguenze anche per ‘allarmare’ in un’accezione positiva. Sono sicura che i genitori non lo facciano con cattiveria.

Da artisti facciamo il nostro: segnaliamo quali sono gli aspetti problematici della società attuale e tutti coloro che possono intervenire devono farlo.

“Le voci sole” affronta un altro punto annoso: la delocalizzazione, un’azione sempre più diffusa da parte delle aziende. Lei ha dato volto alla moglie che resta, come si fa a mantenere una relazione così?

Sono molto sensibile a questo tasto: sono tanto arrabbiata e infastidita da come il capitalismo, in questo momento storico, stia diventando selvaggio. Non sono un’esperta, ma quando sento o leggo che ci sono fabbriche che chiudono nel nostro Paese, con donne e uomini che perdono il proprio lavoro perché all’estero la mano d’opera costa meno: questo mortifica l’economia italiana e soprattutto i nostri lavoratori. Mi sento male. Nel nostro piccolo, nel film, viene evidenziata questa lacerazione, spero che chi veda “Le voci sole” si renda conto che non si tratta solo di Giovanni che va in Polonia; parallelamente arriva qualcuno qui e bisognerebbe essere un po’ più accogliente.

«Amore e sudore», «amore per il cibo»… sono degli ‘slogan’ accomunati dalla ricorrenza del termine ‘amore’ e poi il cibo, nel registro della leggerezza, diventa un elemento che vi unisce. Riflettendo in una prospettiva propositiva, se dovesse utilizzare la parola amore in merito al suo lavoro e a questo lungometraggio?

L’amore per il cibo è qualcosa di bello, appunto unisce, a tavola si sta bene, da noi la cultura gastronomica è fortissima e radicata. Durante il Covid, questo momento di convivialità, ci è stato tolto e ha provocato tristezza. Rispetto all’amore per il mio mestiere è ambivalente in quanto le persone non sempre sanno bene cos’è, alcuni pensano che siamo tutti ricchi, altri che ce la spassiamo. Ci sono dei luoghi comuni che fanno arrabbiare, ma ormai ci sorrido sopra. C’è di vero che fai questa professione solo se la ami tantissimo e ultimamente, per quello che mi riguarda, con l’età che avanza, ho capito l’importanza del mio mestiere. Quando si inizia prevale più l’aspetto esibizionista e la gratificazione personale; col tempo mi sono resa conto che può essere socialmente importante. Quando lo vivi come un dono che hai e che fai agli altri, diventa una dimensione più interessante. Ho avuto questo scatto una volta in cui una signora mi ha fermata dopo un mio spettacolo comico, dicendomi: «Era tanto tempo che non ridevo così, sto passando un periodo di depressione e mi hai fatto stare bene». Quelle sue parole mi hanno toccata molto.

Sarebbe essenziale che arrivasse anche a chi vi viene a vedervi sia a teatro che al cinema.

Visto che per me è stato un percorso di consapevolezza, ritengo fondamentale che lo sia per noi. Non ho la pretesa che chi fa un lavoro ‘più normale’ capisca le sfumature; noi dobbiamo sapere che, al di là delle difficoltà a cui accennavo prima, facciamo qualcosa di bello per gli altri.

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