Futuro

328 emuli di Crono

Hanno promosso gas e nucleare come “tassonomia verde”. Con il voto di ieri a Bruxelles questi politici hanno deciso di sacrificare il futuro dei loro figli in nome di interessi più o meno sordidi.
Credit: EPA/CLEMENS BILAN
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7 luglio 2022 Aggiornato alle 14:00

E così ora sappiamo che 328 parlamentari europei, in particolare tutti quelli del centro-destra italiano, hanno deciso di sacrificare il futuro dei loro figli e nipoti, in nome di interessi più o meno sordidi o di una ingiustificabile mancanza di informazione, ignorando i continui e inequivocabili allarmi della comunità scientifica internazionale e i pareri di comitati di esperti designati dalla stessa Commissione europea.

E allo stesso tempo non è difficile immaginare grande festa fra gli azionisti delle multinazionali del fossile e del nucleare.

Ancora soldi a palate in vista.

Non è difficile immaginarlo perché si affaccia alla memoria l’intercettazione telefonica di quell’imprenditore dell’edilizia che gioiva del terremoto perché così si sarebbe ulteriormente arricchito.

Ma sappiamo cosa in effetti hanno votato questi parlamentari? Sappiamo cosa contiene il documento intitolato “Taxonomy Complementary Climate Delegated Act” la cui proposta di rigetto il Parlamento europeo ha respinto?

Proviamo a fare un po’ di chiarezza, per combattere bene informati quelli che, come Crono, vogliono uccidere i loro figli.

I giornali, radio, TV, social, ci ripetono che il gas e il nucleare sono stati equiparati a fonti rinnovabili, ma è una ipersemplificazione. Intanto va detto che la tassonomia dell’Ue guida e mobilita gli investimenti privati nelle attività necessarie per raggiungere la neutralità climatica nei prossimi 30 anni.

Ciò significa che i fondi di investimento i cui azionisti sono più sensibili alle problematiche ambientali saranno orientati a incanalare risorse nelle tipologie di progetti indicati nella tassonomia. E non solo i flussi finanziari privati verranno orientati dalla tassonomia, anche quelli pubblici, nazionali o europei (vedi Pnrr, per esempio).

Ma, in concreto, cosa dice il documento tanto discusso, e perché le associazioni ambientaliste e chi ha a cuore il futuro del pianeta lo critica? Vediamo.

Il documento dice che fino al 2030 per continuare a produrre energia elettrica, fare cogenerazione o il teleriscaldamento col gas, basta che il nuovo impianto emetta non più di 270 g CO2e/kWh mediamente ogni anno per 20 anni.

Tradotto per i non addetti ai lavori significa che il nuovo impianto nel corso degli anni deve essere progressivamente alimentato da una miscela di gas fossile e gas rinnovabile (gas da biomassa o idrogeno), con una quota progressivamente crescente di quest’ultimo.

Quindi all’inizio l’impianto può essere poco efficiente e alimentato con solo metano fossile, per compensare dopo, nel corso del ventennio.

Infatti si dice che la miscela dovrà contenere nel 2030 il almeno 55% di gas rinnovabile, e questo garantirebbe già il limite di emissioni prescritto. E poi? Mah, non si impone niente, si può continuare così.

Ma non c’è solo questo, il testo dice anche che, in alternativa al limite di 270 g CO2e/kWh, un nuovo impianto a gas costruito prima del 2030 è verde se soddisfa il limite di emissione annuale di 550kg CO2e per kW di potenza installata, nell’arco di 20 anni.

Traduzione per i non addetti: questo sta a indicare che se si costruisce una centrale elettrica col solo scopo di colmare lo scarto istantaneo fra domanda e offerta elettrica causata dalla variabilità delle rinnovabili, allora si può usare un impianto meno efficiente, rispetto al caso precedente.

Cioè, si facilita la costruzione di centrali a gas destinate solo alla stabilizzazione della rete, inducendo a investire su questa tecnologia, invece che sui sistemi di accumulo, che possono fornire istante per istante la potenza occorrente senza produrre CO2.

E sui sistemi di accumulo, a breve, medio e lungo termine si gioca la costruzione di un nuovo sistema energetico fondato esclusivamente sulle rinnovabili. Sdoganare come buone per la transizione le centrali a gas, investendoci, invece di investire sull’accumulo implica allontanare la possibilità di azzerare le emissioni al 2050.

Dopo il 2030, dice ancora il documento, il gas è verde se le emissioni dell’impianto che lo usa sono inferiori a 100 g CO2e/kWh, e ciò è possibile solo se, come è esplicitamente indicato, si ricorre alla CCS (Carbon Capture and Storage), cioè si cattura la CO2 emessa dalla combustione dei fossili e la si inietta sottoterra, e questa possibilità si fa pure rientrare nella tassonomia, accontentando così chi la crisi climatica l’ha causata, l’ha negata per decenni, e continua a rallentare le azioni necessarie per risolverla: le multinazionali Oil&Gas.

Infatti la CCS, sulla cui sicurezza, economicità e sostenibilità la comunità scientifica ha seri dubbi, assicura alle Oil&Gas un radioso futuro: continuare a estrarre e vendere e poi sotterrare il rifiuto, la CO2. L’apoteosi dell’economia lineare “estrai, produci, usa, getta” che lo stesso Green Deal Europeo rigetta.

In tutto questo bisogna aggiungere il nuovo assetto del mercato del gas, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Dovremmo fare di tutto per liberarci dalla dipendenza dal gas russo, e la cosa più

logica ed economica da fare è quella di accelerare al massimo la transizione verso le rinnovabili.

È anche la più economica perché produrre oggi un kWh col gas costa molto di più che produrlo col sole o col vento.

Se si trova ancora qualche investitore disposto a mettere i suoi soldi in una centrale a gas è solo perché è sicuro che il cartello Oil&Gas sarà capace di configurare il sistema energetico in modo da rendere indispensabile il gas ancora per lungo tempo. E infatti questo sta succedendo, con tutti gli investimenti che si stanno facendo (Italia per prima) nella diversificazione degli approvvigionamenti.

Investimenti (nuovi gassificatori, rigassificatori, navi metaniere e nuove infrastrutture) che imporranno – per avere un ritorno economico – l’uso massiccio del gas per i prossimi 20-30 anni, con buona pace della decarbonizzazione.

Anche il nucleare è stato dipinto di verde. Fa parte della tassonomia la ricerca e lo sviluppo dei reattori di IV generazione (che però, recita il testo: “non sono ancora commercialmente sostenibili”); lo sono pure i reattori nuovi di terza generazione (cioè quelli che si fanno oggi) e - perché no? - anche quelli vecchi, di cui si allunga la vita con qualche intervento.

L’unica condizione posta è che i nuovi e i rinnovati rispettino le prescrizioni dell’Euratom sulla sicurezza (e ci mancherebbe altro) e che gli Stati membri dicano come intendono trattare le scorie radioattive (il che non significa niente, come ben sappiamo, perché ai piani poi non corrisponde l’esecuzione; l’obiettivo finale dichiarato, comunque, è sotterrarle in profondità).

Cioè niente di nuovo, tranne la promozione a fonte energetica sicura e sostenibile, come se Fukushima (per dire l’ultimo) non avesse insegnato niente e l’uranio non fosse una risorsa fossile non rinnovabile.

Ma l’aspetto più paradossale, quasi surreale, è la esplicita pretesa di porre il nucleare come tecnologia di transizione verso l’economia circolare, semplicemente grazie a una gestione dei rifiuti, radioattivi e non, che ne garantisca “il massimo riutilizzo o riciclaggio alla fine del ciclo di vita”.

È paradossale perché non c’è nessun processo meno circolare di quello che vede l’estrazione da una miniera di una risorsa finita, l’uranio, la sua lavorazione, il suo uso, e infine il seppellimento nelle viscere della terra dei rifiuti radioattivi, come regalo a chi verrà dopo di noi.

Dov’è il ciclo che si chiude?

Certo, alcuni dei rifiuti radioattivi si possono riusare, come a esempio il plutonio, per fare le bombe. Ed è proprio questa inestricabile interazione fra nucleare civile e militare che potrebbe avere contribuito alla verniciata di verde data ai reattori nucleari, se si pensa alle proposte francesi, e non solo, di creare una forza militare europea e al fatto che solo la Francia oggi possiede un arsenale nucleare nella Ue.

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