Diritti

Neet: vai a capire il (triste) primato

Sono sempre più i giovani che non studiano né lavorano, soprattutto in Italia. Forse dovremmo iniziare ad ascoltarli, anziché ribaltare su di loro la responsabilità di questa situazione
Credit: Tusik Only/unsplash
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 5 min lettura
5 luglio 2022 Aggiornato alle 06:30

Lo sapete cosa significa Neet? è l’acronimo di Not in Employment, Education or Training e fa riferimento alla popolazione giovanile, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che appunto non è impegnata in un percorso scolastico, né in altre tipologie di formazione e non è neppure formalmente occupata.

In Europa, il Paese che presenta la maggiore concentrazione di giovani Neet è l’Italia. I dati a cui facciamo riferimento sono quelli presentati da Istat nel Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile.

Nel 2021, i Neet nel nostro Paese rappresentano il 23,1% della popolazione nella fascia di età di riferimento. A destare preoccupazione, oltre al volume, è l’andamento: nel corso degli ultimi anni, la crescita dei Neet in Italia è stata più rapida rispetto a quanto non sia avvenuto nell’Unione europea a 27 (anche se dal 2020 i dati sono in aumento anche in Spagna e Francia).

I fattori di contesto

Perché in Italia i Neet sono così numerosi? Il nostro è un Paese che non sperimenta da decenni una crescita economica robusta. Se nel 2021 nell’Ue a 27 il tasso di occupazione medio si attesta al 73,1%, in Italia è fermo al 62,7%, con un valore superiore soltanto a quello della Grecia.

Il tasso di crescita del Pil nel 2021, pari al 6,6%, non è stato comunque sufficiente per recuperare la perdita dell’8,9% dell’anno della pandemia. Secondo Istat, a vivere in condizioni di povertà assoluta sono oltre 5,5 milioni di persone, concentrate nel Mezzogiorno e proprio nelle fasce di popolazione più giovane.

Debolezze macroeconomiche impattano sulla condizione giovanile, dunque. Che però viene aggravata anche da fattori specifici di vulnerabilità. Come, a esempio, il livello di istruzione che, per i giovani del nostro Paese, è particolarmente basso.

Stando ai dati Eurostat, mentre nella media europea è in possesso di un titolo di studio terziario il 41% della popolazione di età compresa tra i 30 e i 34 anni, per i giovani italiani questa quota scende drammaticamente al 26,8%.

Le crisi amplificano le diseguaglianze (e colpiscono i più vulnerabili)

Se si tratta di un fenomeno presente su scala nazionale, è pur vero che quello dei Neet è una cartina al tornasole delle vulnerabilità strutturali del nostro Paese. Per esempio, le disparità di genere.

Ad esserne interessate sono soprattutto le ragazze: nel 2021, il 25% delle giovani donne tra i 15 e i 29 anni non è occupata, né coinvolta in alcun percorso formativo (i giovani uomini Neet rappresentano invece il 21,2% del totale).

Pesano anche le disparità territoriali, visto che le regioni con con una presenza più marcata di Neet sono la Puglia (30,6%), la Calabria (33,5%), la Campania (34,1%) e la Sicilia (36,3%). Sempre nel Mezzogiorno, il 55,1% dei Neet disoccupati si trova in questa condizione da almeno 12 mesi (le percentuali scendono al 40,3% nel Centro e al 30% nel Nord).

Neet e Reddito di cittadinanza

Nelle conversazioni dei più anziani (ai quali obtorto collo mi sento di appartenere) su questo tema, si attribuisce una grande responsabilità al reddito di cittadinanza. È piuttosto diffusa questa convinzione: ai giovani diamo questa forma di supporto economico, è quindi normale che non vogliano cercarsi un lavoro.

I dati sembrerebbero portare evidenza a questa ipotesi, stando all’indagine Istat ripresa da Open. A usufruire del reddito di cittadinanza, per circa un terzo del totale nazionale, sono proprio i giovani sotto i 30 anni che abitano ancora nel nucleo famigliare, con una particolare concentrazione in Campania, Sicilia e Puglia. Allora, abbiamo trovato il colpevole (oppure no?)

Potremmo cavarcela così: noi più anziani ci siamo sacrificati, i giovani non vogliono. Noi siamo stati ligi, abbiamo studiato, siamo entrati sul mercato del lavoro, siamo stati alle regole. Loro vogliono la vita facile, li abbiamo coccolati troppo, ora ne prendano le conseguenze.

Per quanto questa lettura possa apparire liberatoria (perché autoassolutoria), non mi convince neppure un po’.

Partiamo a ritroso, dal reddito di cittadinanza. Ammesso anche che i Neet non vedano l’utilità di entrare in un percorso professionale a causa della garanzia di un reddito seppur modesto, ma fornito dallo Stato, anche in questo caso vedo una responsabilità collettiva delle nostre generazioni di più adulti.

Se non siamo riusciti a passare un concetto fondamentale, ovvero che mettersi in gioco nel lavoro fa parte di un processo di crescita personale oltre che professionale, la colpa è anche un poco nostra.

Stesso tema con l’istruzione: se i giovani non riconoscono il valore di intraprendere un percorso formativo, è forse perché nel mercato del lavoro che stiamo veicolando loro davvero la competenza a volte sembra essere marginale (così come il merito, in generale).

E piuttosto che ribaltare su di loro la responsabilità, direi di metterci all’ascolto. Perché, secondo me, questi giovani stanno cercando di dirci qualcosa.

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