Culture

Il “Corpo a corpo” di Veronica Yoko Plebani

In questo documentario non si parla di malattia, di tempi, sudore o qualificazioni. Si parla di sfide, di vita, di “normalità”. Tutto raccontato e vissuto dall’atleta nazionale paralimpica
Un frame di “Corpo a Corpo” diretto da Maria Iovine
Un frame di “Corpo a Corpo” diretto da Maria Iovine
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3 luglio 2022 Aggiornato alle 20:00

Dopo essere stato presentato nella sezione “Panorama Italia” ad Alice nella Città nel 2021, Corpo a corpo, diretto da Maria Iovine, dal 20 giugno 2022 (distribuito da LUCE – CINECITTÀ) è in tour nei cinema. Al centro la storia di Veronica Yoko Plebani.

Il documentario comincia con la naturalezza di un atto: una donna che sta truccando, Veronica (in questo caso per uno shooting fotografico). E l’atleta della nazionale paralimpica di Triathlon già lancia, con una grande spontaneità, un messaggio importante, non con moralismo, ma come segno dell’accettazione di sé: «Mi piace che si veda la cicatrice, mi danno più fastidio le occhiaie».

La chiave del taglio che la regista, con uno sguardo anche da donna a donna, ha voluto conferire si può rintracciare in queste sue parole: «La prima volta che ho incontrato Veronica, mentre assistevo a uno dei suoi allenamenti, si è fermata con il fiato corto e il viso arrossato dalla fatica e mi ha detto “Dimmi che non racconteremo solo di tempi, sudore e qualificazioni. E promettimi che non staremo ancora a rivangare una malattia che non è stato che un attimo in tutti gli anni della mia vita”».

«Dopo queste parole - ha continuato - ero sicura, volevo fare un documentario su di lei, volevo raccontare la piccola Yoko, che a soli 25 anni (22 quando ci siamo incontrate la prima volta), ha molto da dire a tantissime donne, anche a quelle che non hanno mai messo piede in una palestra. La meningite, la terapia intensiva, l’essersi dovuta confrontare con l’idea della morte non mi interessavano. Io volevo scoprire, e far scoprire a chi avrebbe visto il film, chi è Veronica oggi, andando oltre la narrazione eroica della sopravvissuta, andando oltre l’immaginario dell’atleta che con il sudore, la fatica e l’impegno arriva al suo traguardo».

Lo spettatore impara - e talvolta innegabilmente si resta stupiti - di come lei non voglia mollare anche rispetto al dolore che prova perché ha lo scopo di una gara (per citare una circostanza) e di come Plebani abbia realmente fatto un percorso su e dentro di sé per accettarsi, ponendosi una sfida dietro l’altra e, al contempo, volendo vivere la quotidianità (come, per esempio, andando a ballare).

«Le cicatrici, le amputazioni, le protesi non sono un limite, ma l’estensione di una vita. Vedere un corpo come il suo che riesce ad allenarsi, a sopportare la fatica, a raggiungere giorno dopo giorno un obiettivo sempre più lontano è normale e allo stesso strabiliante quanto vedere una ragazza di 25 anni che esibisce il suo corpo imperfetto senza alcuna paura. Oggi si parla molto di body confidence, ma la verità è che viviamo nell’epoca di Instagram in cui quelle stesse ragazzine che mettono like alle smagliature fieramente esibite da influencer, prima di pubblicare una loro foto, provano tutti i filtri a disposizione per nascondere le imperfezioni» [dalle note di regia, ndr].

La macchina da presa la segue con discrezione proprio nei momenti quotidiani ed è questo a comunicare maggiormente. Si vuole rifuggire dalla retorica perché altrimenti si scadrebbe in quel giro infernale degli spot e delle logiche social. Noi scopriamo, con Veronica Yoko Plebani, come il suo corpo possa mutare e come testa, cuore e forza di volontà possano reagire a tutto questo.

Chi guarda, a sua volta, deve affrontare un corpo a corpo inconsciamente - e non - con se stesso perché le domande sono inevitabili: sorge naturale guardarsi, interrogarsi sullo sguardo dell’altro (di cui troppo spesso subiamo il giudizio). «La sua rivoluzione non è nelle medaglie, nelle ore estenuanti di allenamento, nella fatica e nel dolore, la sua rivoluzione è proprio nella sua normalità. Ed era questa normalità che mi affascinava, era proprio questa che volevo raccontare», ha continuato la regista.

Il tratto di strada compiuto con Veronica insegna ad ampliare gli orizzonti e di come la diversità (dipende dal soggetto in causa e anche da chi sta accanto) possa esser trasformato in un punto di forza. Le parole di Iovine fanno trasparire quanto coinvolgimento ci sia stato da parte sua e come questo documentario l’abbia fatta mutare.

«La vita di Veronica ci costringe a farci una domanda basilare: cos’è la normalità? Il confine sta proprio lì: finché avremo degli standard con cui confrontarci ci sarà sempre qualcosa che ci appare diverso nel bene e nel male. […] Una donna magra è considerata bella nel mondo occidentale, mentre in altre culture non lo è affatto. Con Veronica andiamo oltre tutto questo. E quindi parlare di accettazione del corpo non vale più. Un corpo va solo vissuto. L’eccezionalità normale di questa ragazza, parla a tutte e a tutti noi normali. Corpo a corpo esprime proprio questa dualità, un confronto inesistente con un paradigma solo evocato».

«Lavorare a un documentario biografico ti mette in continua discussione - ha aggiunto Iovine - Da regista e da donna ho inevitabilmente un punto di vista preciso che però si confronta con la materia che ho deciso di raccontare, la quale non è solo un bacino narrativo, è una vita, una ragazza, un’esperienza ancora in trasformazione. L’universo femminile e la questione di genere sono parte fondante della mia ricerca personale. Questo è il motivo per cui ho chiesto a Veronica di aprirmi la sua vita, ma il film non poteva compiersi solo a partire da questo. Così, durante le riprese di Corpo a corpo, che sono state anche il mio personale cammino nella vita di Veronica, passo dopo passo mi sono sempre più messa in ascolto sulla Yoko‐frequenza».

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