Ambiente

A tutto gas

“Le aziende del fossile tengono l’umanità per la gola”, dice il capo delle Nazioni Unite Antonio Guterres. E con i loro progetti renderanno irraggiungibile l’obiettivo climatico di 1,5 °C
Credit: Chris Liverani/unsplash
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28 giugno 2022 Aggiornato alle 06:30

Quando si dice che piove la manna dal cielo: questo è successo alle multinazionali del petrolio e del gas grazie alla guerra in Ucraina.

Si sono completamente dissolti i timori degli azionisti di vedere ridotti i loro lauti profitti a causa del processo di decarbonizzazione, la cui inderogabile necessità è stata messa in piena evidenza dall’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’ONU.

Ora non c’è più da preoccuparsi: la miope politica europea che ha messo la massimizzazione del profitto davanti alla sicurezza nazionale, legandosi mani e piedi a chi offriva il metano (e il petrolio e il carbone) ai prezzi più bassi, ha ridato loro i pieni poteri.

Il Guardian online del 17 giugno scorso titola: “Le aziende del fossile ‘tengono l’umanità per la gola’, dice il capo delle Nazioni Unite in un duro attacco”. E nel testo aggiunge che ci tengono per la gola loro e i loro finanziatori, “che stanno registrando profitti record in un contesto di prezzi dell’energia mandati alle stelle dalla guerra in Ucraina”.

Guterres non si ferma qui, ma con un ulteriore affondo paragona le multinazionali del fossile a quelle del tabacco, che hanno continuato a promuovere i loro prodotti che creano dipendenza, nascondendo o attaccando gli scienziati che mostravano i chiari legami tra il fumo e il cancro, come sono chiari i legami fra combustibili fossili e devastazione ambientale.

Ma perché è così arrabbiato, il segretario dell’Onu? Lo è perché – come rivela sempre il Guardian in un articolo dell’11 maggio scorso - le principali aziende del petrolio e del gas stanno pianificando decine di vasti progetti che minacciano di rendere irraggiungibile l’obiettivo climatico di 1,5 °C, e se i governi non agiscono, queste aziende continueranno a incassare mentre il mondo brucia.

Le bombe al carbonio, le chiama il Guardian, perché queste aziende stanno di fatto scommettendo miliardi di dollari contro l’eventualità che l’umanità arresti il riscaldamento globale. I loro ingenti investimenti nella produzione di nuovi combustibili fossili possono ripagarsi solo se non si riesce a ridurre rapidamente le emissioni di carbonio, cosa che secondo gli scienziati è fondamentale per garantire un futuro accettabile a chi verrà dopo di noi, e non tanto dopo: già chi è nato in questo secolo è in grande pericolo.

Per avere un’idea di quello che l’avidità degli azionisti delle multinazionali del fossile sta mettendo in atto, aggiunge il Guardian: i piani di espansione a breve termine dell’industria dei combustibili fossili prevedono l’avvio di progetti petroliferi e di gas che produrranno gas serra equivalenti a un decennio di emissioni di CO2 della Cina, il più grande inquinatore del mondo.

Questi piani includono 195 bombe al carbonio, giganteschi progetti petroliferi e di gas che produrrebbero ciascuno almeno un miliardo di tonnellate di emissioni di CO2 nel corso della loro vita, in totale equivalenti a circa 18 anni di emissioni globali di CO2. Circa il 60% di questi progetti ha già iniziato a essere operativo.

E si tratta di investimenti che, per avere un ritorno, devono essere produttivi per almeno altri 20-30 anni, a pieno regime, vanificando qualsiasi possibilità di decarbonizzazione.

Il tutto malgrado, nel maggio 2021, un rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, un organismo ben noto per essere decisamente conservatore, abbia concluso che non dovrebbero essere sfruttati nuovi giacimenti di petrolio, gas o miniere di carbone se si vuole che il mondo raggiunga la condizione di emissioni nette zero entro il 2050, la sola condizione che ci consentirebbe di contenere entro 1,5°C l’incremento della temperatura rispetto al valore preindustriale.

Ma l’attacco all’umanità di quell’1% più ricco della popolazione mondiale che possiede più di quanto non possegga il 50% più povero non si attua solo attraverso le compagnie del petrolio e del gas. A far loro da spalla ci sono le case automobilistiche, che si stanno preparando alla sciagura (per loro e per le Oil&Gas) dello stop alle auto a combustione interna nel 2035 nella Ue.

E come si preparano? Semplice, basta guardare i numeri. L’Africa conta più di un miliardo di persone, il 17% della popolazione mondiale, ma rappresenta solo l’1% delle auto vendute nel mondo, rispetto al 30% della Cina, al 22% dell’Europa e al 17% del Nord America. L’Africa ha in media 44 veicoli ogni 1.000 persone, rispetto alla media mondiale di 180 e agli 800 degli Stati Uniti. E l’Africa non ha messo alcun bando alle auto a combustione interna, che costano molto meno di quelle elettriche e che saranno chiamate a garantire le aspettative di mobilità di una classe media che va crescendo.

E allora che si fa? Si costruiscono fabbriche, quelle fabbriche che verranno dismesse in Europa. E così le multinazionali dell’auto stanno avviando impianti di produzione in Angola, Etiopia, Ghana, Kenya, Namibia, Nigeria e Ruanda. E l’Africa, nei loro piani e in quelli delle multinazionali del petrolio, continuerà a comprare e usare le auto che inquinano.

E in Italia, che succede? Ce lo dicono le principali testate nazionali, tutte più o meno con lo stesso titolo trionfalistico, che suona così: “Gas, Eni entra nel più grande progetto al mondo in Qatar”. Leggendo, si apprende che il colosso Eni entra nel più grande progetto al mondo di gas naturale liquefatto (GNL) in Qatar, uno dei Paesi produttori con le più ampie riserve di metano liquido al mondo. E si apprende pure, dal Corriere della Sera, che Draghi e i ministri degli Esteri, Luigi Di Maio, e della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, lavorano da mesi sottotraccia con l’Eni che a Doha ha proficue relazioni da tempo.

Ma vediamo cosa ci dice il Corriere della Sera in proposito: “Il progetto consentirà di aumentare la capacità di esportazione di GNL del Qatar. Con un investimento di 28,75 miliardi di dollari dovrebbe entrare in produzione entro la fine del 2025 e impiegherà tecnologie e processi all’avanguardia per minimizzare l’impronta carbonica complessiva, tra cui la cattura e lo stoccaggio della CO2. L’accordo, che segna il completamento di un processo competitivo iniziato nel 2019, ha una durata di 27 anni”.

Cioè, intanto non risolve il problema immediato della sostituzione del gas russo, perché se ne parla fra due anni a cominciare. Inoltre ci impegniamo a estrarre e quindi bruciare gas almeno fino al 2050. Ma al 2050 non dovremmo avere smesso di immettere CO2 in atmosfera, riducendo rapidamente le emissioni fin da ora? Ma allora ENI non crede proprio che ci si possa riuscire, che la catastrofe climatica è inevitabile e che quindi tanto vale almeno fare arricchire chi può permetterselo? Ma veramente sono così cattivi d’animo?

No – dicono loro – non siamo affatto cattivi d’animo, anzi. Infatti l’accordo comprende anche la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS, Carbon Capture and Storage). Cioè l’idea è che si continua a bruciare gas o petrolio a più non posso e poi si estrae, con un processo chimico, la CO2 che si trova nei fumi prodotti dalla combustione e la si pompa sottoterra, a beneficio di chi ci seguirà.

Se qualcosa, col tempo, va storto, se c’è qualche fuga di CO2 pazienza, problema suo. E che qualcosa possa andare storto è ben noto agli esperti del settore. Inoltre, guarda caso, per catturare e pompare sottoterra la CO2 ci vuole energia, cioè si producono emissioni; si stima un’efficienza del processo che va dal 63 all’82%.

Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma solo le riduce, e questa riduzione ha oggi un costo molto elevato. Il costo è in parte compensato quando la CO2 si inietta in giacimenti di petrolio o metano esausti (vuole farlo l’ENI a Ravenna), da cui – con l’aumento di pressione – si possono “spremere” quantità residuali che non era stato conveniente estrarre. Peccato che poi queste quantità estratte servono per essere bruciate, e quindi dov’è la riduzione delle emissioni?

Ci sono molti altri contro riguardo alla CCS, ma quello che taglia la testa al toro è che si prefigura un processo in contrasto con la linea europea del Green Deal (e della comunità scientifica internazionale) che pone l’economia circolare come pilastro dello sviluppo sostenibile. Ebbene, estrarre, bruciare e sotterrare il rifiuto tutto è tranne che circolare e quindi intrinsecamente insostenibile. E non parliamo dei diritti umani in Qatar, con il quale ci abbracciamo.

E allora, giusto e apprezzabile che il governo italiano faccia di tutto per sostituire il gas russo nel più breve tempo possibile, ma se il prezzo da pagare è quello di rinunciare alla transizione ecologica e lasciare un mondo invivibile ai nostri figli e nipoti, no. Non è un prezzo che si può pagare. Tanto più che non è affatto inevitabile pagarlo.

In tutta questa storia, infatti, si investono allegramente miliardi di euro nel fossile e non si riesce (o non si vuole) accelerare la sostituzione del gas con le rinnovabili, con un vero colpo di reni, e costringendo l’ENI a contribuire sostanzialmente, mettendo in campo le sue risorse economiche, finanziarie e umane.

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