Diritti

Sfrattare i Masai per far spazio al turismo

In Tanzania, il governo usa la forza contro le comunità locali per realizzare un’area protetta (e per la caccia al trofeo). Costringendole alla fuga
Tribù Masai a Karatu, Tanzania
Tribù Masai a Karatu, Tanzania Credit: Sofia Zubiria/Unsplash
Tempo di lettura 4 min lettura
15 giugno 2022 Aggiornato alle 21:00

Per poter sparare agli animali sparano sui Masai.

Nel cuore dell’Africa orientale, il governo della Tanzania, con polizia e forze armate, a inizio giugno ha dato il via allo sgombero di alcune comunità di Masai nella zona di Loliondo: 700 uomini con fucili e machete hanno prima delimitato un’area, poi intimato agli abitanti di andarsene - i quali hanno protestato - e alla fine aperto il fuoco.

Trentuno persone sono rimaste ferite, in centinaia si sono dati alla fuga, una sarebbe deceduta dopo le ferite.

La situazione in Tanzania è drammatica: lì, da sempre, vivono i popoli originari, i protettori delle terre ancestrali, quei Masai che nel 1959 furono sfrattati dai territori del Serengeti dai coloni britannici e dispersi in altre aree, come Ngorongoro o Loliondo.

Quest’ultima zona, dove si stima vivano tra i 70.000 e gli 80.000 Masai, è oggetto di una contesa che va avanti da oltre 13 anni: qui, in un’area di circa 1500 km quadrati, il governo della Tanzania insieme alla società araba Otterlo Business Company intende creare una gigantesca “area protetta” per la conservazione animale, dove però garantire - cosa che già accade oggi - la caccia al trofeo.

In sostanza: con l’idea di “preservare la natura”, trasformare la zona in una game controlled area, ovvero una superficie dove i ricchi turisti (compresi i reali degli Emirati) possano spendere anche 50.000 euro per sparare alla fauna selvatica (in maniera regolata) e dove, per volontà di chi sta promuovendo l’iniziativa, non ci sia il rischio di incontrare esseri umani.

Per questo i Masai con i loro pascoli e le mucche, con le loro case e le comunità che hanno costruito, nell’area di Loliondo non li vogliono più vedere. Un piano per trasferirli, di fatto, secondo Survival International, che sta facendo una campagna in difesa delle comunità indigene, nemmeno esiste.

Però a inizio giugno - forse preoccupati per un atteso verdetto della Corte di giustizia dell’Africa dell’Est che potrebbe dare ragione al Masai dopo una causa intentata cinque anni fa - l’esecutivo della Tanzania ha deciso comunque di mandare la polizia e iniziare lo sgombero.

Una mossa permessa da un cambio di statuto delle terre: da area dei Masai a zona di caccia al trofeo.

A più voci, i Masai hanno protestato, inviato lettere alla comunità internazionale e tentato ogni mossa per restare dove sono, dato che per loro quelle terre sono la vita, sono il luogo dove seppelliscono i loro cari, dove crescono gli animali con cui convivono, sono gli ecosistemi che si impegnano a proteggere fin da bambini.

Dopo le violenze però, con anziani colpiti da pallottole e machete e intere famiglie in fuga, ai Masai sono rimaste poche “armi” per riuscire a resistere se altri non scenderanno in campo per sostenerli.

Già nel 2009 e nel 2017 ci fu un tentativo di allontanarli, ma i Masai respinsero l’offensiva.

Fiore Longo di Survival International ha spiegato che «sparano contro i Masai solo perché loro vogliono vivere in pace nelle loro terre ancestrali, li attaccano per far spazio alla caccia da trofeo e alla ‘conservazione’. La violenza che vediamo in Tanzania è la realtà della conservazione in Africa e Asia: violazioni quotidiane dei diritti umani dei popoli indigeni e delle comunità locali per permettere ai ‘ricchi’ di cacciare e fare safari. Non possiamo più chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani commesse nel nome della ‘conservazione’. Questo modello di conservazione è profondamente disumano e inefficace, e deve cambiare immediatamente».

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