Futuro

Sequenziato il Dna di un abitante di Pompei

Per la prima volta, un pool di ricercatori italiani e internazionali ha mappato l’intero codice genetico di un uomo morto durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
La mostra "Arte e sensualità nelle case di Pompei", alla Palestra Grande degli scavi.
La mostra "Arte e sensualità nelle case di Pompei", alla Palestra Grande degli scavi. Credit: ANSA/CESARE ABBATE
Fabrizio Papitto
Fabrizio Papitto giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
29 maggio 2022 Aggiornato alle 13:00

La rivista Scientific Reports ha pubblicato i risultati di una ricerca che valorizza una volta di più il tesoro custodito nel sito archeologico di Pompei. Un patrimonio che è anche genetico. Per la prima volta, infatti, è stato sequenziato il Dna di un pompeiano morto durante l’eruzione del Vesuvio, che il 24 agosto del 79 d.C. causò la morte di oltre 2.000 persone ed è ritenuta ancora oggi l’eruzione vulcanica più letale della storia europea.

Si tratta di un uomo di età compresa tra i 35 e i 40 anni con un’altezza stimata di 164,3 cm, un millimetro inferiore alla media di un maschio dell’epoca. Il suo cadavere fu rinvenuto all’inizio degli anni Trenta insieme a quello di una donna di oltre 50 anni in una sala della cosiddetta Casa del Fabbro, o Casa dell’Artigiano.

«Dalla posizione sembra che non stessero scappando», ha arguito Serena Viva, coautrice della ricerca. Secondo l’antropologa dell’Università del Salento, «la risposta al motivo per cui non stavano fuggendo potrebbe risiedere nelle loro condizioni di salute».

La mappatura del Dna, infatti, ha rilevato sequenze genetiche analoghe a quelle del batterio responsabile della tubercolosi, ed è quindi ipotizzabile che l’uomo soffrisse del comune morbo di Pott, una tubercolosi extrapolmonare che attacca la colonna vertebrale. «Lo immagino che pranza tranquillamente mentre è sdraiato sul divano combattendo contro il mal di schiena», ha commentato Fabio Macciardi, neurobiologo dell’Università della California, Irvine (Uci) e tra gli autori della ricerca.

La coppia fu ritrovata con le braccia strette ai bordi di un divano o chaise longue all’interno di quella che si presume fosse una sala da pranzo. Secondo i ricercatori, la posizione e l’orientamento dei due corpi «sono compatibili con la morte istantanea dovuta all’avvicinarsi della nube di cenere vulcanica ad alta temperatura». Ai piedi della donna, inoltre, c’era una borsa di stoffa con 26 monete d’argento.

«Il loro stato di conservazione era ottimo, non devono essere venuti a contatto con temperature troppo elevate», ha dichiarato Gabriele Scorrano, ricercatore del Centro di Geogenetica dell’Università di Copenhagen e coordinatore della ricerca. Al contrario «il Dna era molto degradato, ma siamo riusciti comunque a estrarlo».

L’intero codice genetico dell’uomo è stato analizzato a partire da un frammento osseo alla base del cranio con l’ausilio di nuovi macchinari in grado di sequenziare diversi genomi contemporaneamente.

«Il successo del recupero del DNA antico da un individuo ci ha permesso di ricostruire la sua storia genetica e di indagare sulla presenza di agenti patogeni trasmessi dal sangue, insieme all’evidenza della biologia scheletrica. Inoltre, questi dati possono anche darci una panoramica della diversità genetica al di fuori di Roma durante l’Impero Romano», hanno affermato i ricercatori.

Il confronto col materiale genetico di oltre 1.000 uomini dell’antichità e 471 abitanti attuali dell’Eurasia occidentale ha mostrato che il Dna analizzato è «geneticamente vicino ai popoli mediterranei esistenti, principalmente all’Italia centrale e ai sardi», rivela lo studio.

Un’affinità che suggerisce come l’Italia dell’epoca presentasse «un grado notevole» di omogeneità genetica. «È plausibile pensare che grazie all’espansione e all’aumento demografico avvenuto durante l’età imperiale, il pool genetico di Roma abbia lasciato un segno sulle popolazioni vicine che può essere riconosciuto ancora oggi», conclude la ricerca.

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