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Siamo sempre più avvolti dal silenzio mortale della natura

 

Tempo fa, durante un’intervista,Nara Barè- prima donna indigena brasiliana eletta alla guida delCoiab, le organizzazioni indigene dell’Amazzonia – mi ha detto una cosa che per un europeo è difficile da immaginare. Spiegava che inAmazzonia, in alcune zone dove vivono i popoli originari, a causa delle azioni dell’uomo come ladeforestazione, oppure le estrazioni minerarie,gli uccelli avevano smesso di cantare. Di conseguenza, spiegava, gli indigeni disorientati non sanno più riconoscere le stagioni, l’arrivo delle piogge e sapere quando coltivare. Un mondo senza più i suoni della natura per via delle azioni antropiche era quellodi cui oltre sessant’anni fa ci avvertiva chiaramente anche Rachel Carson, la nota biologa statunitense autrice diPrimavera silenziosa, libro tornato in auge perché al centro della serieIl problema dei 3 corpi. In quel caso Carson raccontava come in un’oasi naturale americana, dopo l’uso del Ddt per debellare le zanzare,la primavera era diventata silenziosa perché gli uccelli erano spariti. Tutto ciò Carson, scomparsa sessant’anni fa di questi tempi, lo ribadiva con una visione che oggi risulta attualissima:gli stessi scienziati ed esperti ci raccontano come il mondo sia sempre più di fronte a una sorta di “silenzio mortale” della natura a causa della perdita dibiodiversitàe la scomparsa di numerose specie. Questa perdita di suoni, questo diventare “fossili acustici” per via della distruzione ambientale, è stata di recenteben raccontata sulle paginedelThe Guardianda alcuni professori chegrazie all’eco acustica e la bioacusticaraccolgono da anni proprio i rumori della natura, per esempio per determinare la presenza di specie in un determinato habitat. Tutto ci parla: le foreste, gli oceani, i suoli, hanno delle firme acustiche che grazie alle nuove tecnologie possono fornirci informazioni sullo stato di salute degli ecosistemi e degli animali. Eppure buona parte di questi suoni li stiamo perdendo:per esempio il canto degli uccelli, oppure il fruscio dei mammiferi del sottobosco o ancora il ronzio degli insetti. Ormai«è una corsa contro il tempo: abbiamo appena scoperto che producono tali suoni, eppure sentiamo il suono scomparire»,ha detto per esempioSteve Simpson, professore dell’University of Bristol. Bernie Krause, studioso che in 55 anni ha effettuato oltre 5.000 ore di registrazioni in sette continenti, stima addiritturache il 70% dei suoni del suo archivio provenga da habitat che oggi non ci sono più, mentreBryan PijanowskidellaPurdue Universityspiega che «i suoni del passato che sono stati registrati e salvati rappresentano i suoni di specie che potrebbero non essere più qui, quindi questo è tutto ciò che abbiamo. Le registrazioni che molti di noi hanno sono di luoghi che non esistono più e non sappiamo nemmeno quali siano quelle specie. In questo senso sono già fossili acustici». A confermare questa tesi uno studio del 2021 suNatureafferma chesu circa duecentomila siti tra Europa e Nord America c’è stata “una perdita pervasiva di diversità acustica e intensità dei paesaggi sonori in entrambi i continenti negli ultimi 25 anni,guidata da cambiamenti nella ricchezza e abbondanza delle specie” e questo può avere “implicazioni potenzialmente diffuse per la salute e il benessere umano”. Anche il mare, fortemente colpito dall’inquinamento acustico delle navi e delle tratte cargo, paga un prezzo altissimo: dalle interferenze sulla vita dei cetacei sino alla perdita della cacofonia nelle barriere coralline. Se immaginare un mondo senza musica naturale è praticamente impossibile, oltre che estremamente doloroso, immaginarne uno dove le nuove tecnologie e gli impegni per il clima ci aiutano a far risplendere i suoni è però non solo possibile, ma anche doveroso. Per questograzie a nuovi sensori e al miglioramento dello studio della bioacustica sta crescendo, nel mondo, l’uso di idrofoni e strumenti che ci aiutano a mapparee avere informazioni sugli ecosistemi,in modo da sviluppare meglio politiche di conservazione. Per molti scienziati è infatti tempo di “ascoltare” quello che ancora la natura ci può dire e lavorare nella direzione di far risaltare la sua voce. Come chiosa Pijanowski «come scienziato ho difficoltà a spiegare cos’è la biodiversità, ma se ascolto una registrazione e posso dire di cosa sto parlando, descrivere le voci di questo luogo. Possiamo lavorare per preservarle oppure no, a noi la scelta».

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