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Perché il Mezzogiorno deve ripartire dalla bioeconomia

 

Il Sud Italia è più attivo nella bioeconomia rispetto al Nord. Quasi un quarto (23,6%) delle imprese meridionali impiega risorse e scarti biologici per produrre, contro meno di un quinto (19,7%) del Centro-Nord. A fotografare la situazione è l’indaginesu un campione di imprese condotta da Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) eCentro Studi Tagliacarne. Nella bioeconomia si appiana anche il tradizionale divario tra le aree del Paese. Infatti, negli ultimi 7 anni, il 63,4% di queste imprese localizzate nel Sud ha investito in azioni perridurre l’impatto ambientale come il risparmio idrico o energetico. Un dato simile si ritrova al Centro-Nord (63,2%). La “vocazione bioeconomica” del Mezzogiorno è facilitata dalla forte presenza di industrie del settore primario, che impiegano risorse della terra, del mare e dei boschi. Ma la crescita di attività bio è anche legata alla peculiarità del tessuto produttivo:nel Sud si concentrano imprese di piccole e medie dimensioni, che nel corso dei decenni, anziché espandersi, si sono rivolte allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, queste attività hanno maturato un alto grado di specializzazione in settori naturalmente orientati all’impiego del bio.È il caso dell’agro-alimentare, della manifattura e del tessile. Diverse le attività bioeconomiche nel Mezzogiorno. A Catania si trova la prima azienda al mondo di tessuti creati dagli scarti delle imprese produttrici di succo di agrumi. L’impresa rifornisce sia le grandi catene di abbigliamento che la moda di lusso. In provincia di Caserta, i siti industriali dismessi sono stati riconvertiti in bioraffinerie integrate che, partendo dalle bioplastiche, producono materiali biodegradabili e compostabili. Centrale per l’obiettivo europeo dellatransizione verde, la bioeconomia registra una generale crescita anche nel nostro Paese. Secondo l’ultimorapportodiIntesa San Paolo,l’Italia è al terzo posto in Europa per numero di attività coinvolte, con un valore di beni e servizi prodotti che, in costante aumento nel corso degli anni, ha toccato i 415 miliardi di euro nel 2022. È inoltre al secondo posto per occupati nel settore, con 2 milioni di addetti. Numeri, questi, che hanno bisogno di un programma e di risorse. Nel 2017 era stata elaborata una strategia nazionale con l’obiettivo di doppiare i numeri della produzione bioeconomica e dei posti di lavoro nel settore. Strategia che è ferma al 2020 e non sembra aver avutoulteriori sviluppi. La bioeconomia non trovapostonel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Una cifra compresa tra il miliardo e mezzo e i 2 miliardi è destinata a settori collegati, come l’economia circolaree l’ammodernamento del ciclo di gestione dei rifiutio nella costruzione di impianti per l’energia rinnovabile. La fonte essenziale di finanziamento delle imprese della bioeconomia proviene dal Fondo di sviluppo e coesione (Fsc), che punta a colmare il divario Nord-Sud e destina al Meridione l’80% delle risorse. Il penultimorapportodi Intesa San Paolo fa un focus sulle prospettive che si aprono per il Mezzogiorno. Le linee di intervento vanno a sostenere quelle filiere che usano le biomasse e gli scarti per produrre, come l’azienda tessile catanese cheimpiega i residui degli agrumi, o a favorire la reindustrializzazione di siti dismessi, come le bioraffinerie di Caserta. Inoltre, si punta a modernizzare il settore agroalimentare tramite l’efficientamento dei sistemi di irrigazione, per ridurre lo spreco di acqua, e investendo su forme di agricoltura innovative, come quelle di precisione e rigenerativa. Finanziare la bioeconomia significa anche contribuire a quei benefici “a cascata” evidenziati dall’indagineTagliacarne-Svimez. Le imprese del settore investono di più in Ricerca e Sviluppo rispetto a quelle non-bio, e sono più attente alla formazione del personale.

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