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Che cos’è il “Codice Rosa” per le vittime di violenza?

 

1 donna su 3 subisce almeno una forma di violenza nell’arco della sua vita. Questo significa che, statisticamente, molte di queste donne passano per ilpronto soccorsodi una struttura sanitaria. Troppo spesso, il maltrattante è seduto in sala d’attesa proprio accanto a loro o le aspetta fuori, per riportarle a casa. Per questo,avere personale formatoper riconoscere la violenza, anche quando non viene dichiarata, per assistere chi ne è vittima con empatia e mancanza di giudizio, creando un rapporto di fiducia, e per dare tutte le informazioni affinché sappia quali sono i suoi diritti e cosa può scegliere di fare per uscire da quella violenza è fondamentale. Molte e molti di noi non lo sanno, ma questo è già realtà nei nostri ospedali, grazie all’intuizione della dottoressaVittoria Doretti,che nel 2010 ha lanciato ilCodice Rosa, nato come un progetto pilota dell’Azienda USL 9 di Grosseto. L’obiettivo era creare unacorsia protetta per le vittime di violenza(non solo le donne, in particolare quelle più vulnerabili, ma anche i loro figli) assicurando un più efficacecoordinamento tra le diverse istituzionie maggiori competenze per dare una risposta efficace già dall’arrivo della vittima di violenza in pronto soccorso. Dal 2017 questa esperienza regionale è stataestesa a livello nazionale, grazie all’introduzione dilinee guida ministeriali, aggiornate nel 2019, valide per tutte le aziende sanitarie del Paese, che forniscono informazioni e strumenti non solo per riconoscere la violenza ma anche persupportare la vittima, effettuare una prima valutazione del rischio, documentare con precisione la violenza, informare la persona che la subisce sui suoi diritti e, se lo desidera, metterla in contatto con la rete dei centri antiviolenza. L’obiettivo, si legge nel testo, è“fornire un intervento adeguato e integrato nel trattamento delle conseguenze fisiche e psicologiche che la violenza maschile produce sulla salute della donna.Il Percorso per le donne che subiscono violenza, di seguito delineato, dovrà garantire una tempestiva e adeguata presa in carico delle donne a partire dal triage e fino al loro accompagnamento/orientamento, se consenzienti, ai servizi pubblici e privati dedicati presenti sul territorio di riferimento al fine di elaborare, con le stesse, un progetto personalizzato di sostegno e di ascolto per la fuoriuscita dalla esperienza di violenza subita”. Le linee guida stabiliscono che debba essere presente nella zona del triage ospedaliero“materiale informativo(cartaceo e/o multimediale) visibile e comprensibile anche da donne straniere, relativo a: a) tipologie di violenza; b) effetti della violenza sulla salute di donne e bambine/i; c) normativa di riferimento; d) indicazioni logistiche sui servizi pubblici e privati dedicati presenti sul territorio; e) servizi per il sostegno a figlie/i minori testimoni e/o vittime di violenza; f) indicazioni relative al numero di pubblica utilità 1522”. Soprattutto, però, istituiscono il“Percorso Rosa”,un percorso speciale di accesso al pronto soccorso che prevede un tipo diassistenza protetta pensata per garantire incolumità fisica e psichicae la massimaceleritàdi intervento. Si attiva durante il triage al momento della segnalazione da parte della paziente di essere unavittima di violenzao in presenza di indicatori che possano far sospettare all’operatore sanitario che la persona che si trova di fronte possa subire violenza: non solo fattori legati all’aspetto psicofisico, ma anche, a esempio, lo storico degli accessi al pronto soccorso, facilmente consultabile grazie al database. Alla donna viene assegnato quindi un“Codice Rosa”che, sebbene non corrisponda per gravità a un codice di massima urgenza come il Rosso, le consente diattendere in una sala separata lontano da accompagnatori maggiorenni(che possono entrare solo su sua richiesta) e di essere visitata in tempi sensibilmente più brevi rispetto a quelli ordinari per il Codice Giallo, generalmente entro 20 minuti al massimo. Durante la visita, non solo il personale sarà formato per assistere la donna in un modo adatto alla situazione, ma nei casi in cui la donna dia il suo consenso, può raccogliere le prove della violenza, a esempio scattando foto delle lesioni, prelevando campioni o attivando la catena di custodia delle prove nei casi di violenza sessuale, oltre a metterla in contatto con i centri antiviolenza presenti sul territorio (che in alcuni casisono presenti direttamente all’interno degli ospedali)o con le forze dell’ordine. “L’operatrice/operatore sanitaria/o che ha preso in carico la donna – spiegano ancora le linee guida – deve refertare tutti gli esiti della violenza subita in modo dettagliato e preciso e redigere il verbale di dimissione completo di diagnosi e prognosi”: se questa supera i 40 giorni (20 in caso di persone affette da patologie psichiche o fisiche) la denuncia parte d’ufficio. Non solo: al termine del trattamento diagnostico-terapeutico, il personale sanitarioeseguirà una valutazione del rischio di recidiva attraverso ilBrief RiskAssessment for the Emergency Department, più comunemente conosciuto comeDA5, un questionario composto da 5 domande che classifica come ad altissimo rischio chi risponde positivamente almeno a 3 item: 1) La frequenza e/o la gravità degli atti di violenza fisica sono aumentati negli ultimi 6 mesi? 2) L’aggressore ha mai utilizzato un’arma, o l’ha minacciata con un’arma, o ha tentato di strangolarla? 3) Pensa che l’aggressore possa ucciderla? 4) L’ha mai picchiata durante la gravidanza? 5) L’aggressore è violentemente e costantemente geloso di lei? In questo caso, la donna può essere messa in sicurezza attraverso lecase rifugioo tramite l’ospedale stesso, che può attivare un ricovero inO.b.i.(Osservazione Breve Intensiva) della durata di 36 o 72 ore. Se ci sono dei figli minori assieme alla madre, vengono accolti con lei. Se il rischio è basso, la donna viene informata della possibilità di rivolgersi ai Centri antiviolenza e, se acconsente, viene attivata la rete antiviolenza.

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