Strade sott’acqua, case distrutte e ricordi di una vita perduti. Nell’ultimo anno solo nel nostro Paese abbiamo assistito aeventi climatici disastrosi: dalleMarche, all’Emilia-Romagnafino allaToscana, le cui strade sono ancora bloccate da acqua e fango dopo la violenta alluvione del 4 novembre. Immagini a cui non riusciamo, e non dovremmo, abituarci, ma che tuttavia rientrano sempre di più nella nostra quotidianità. Rispetto al periodo preindustriale,la temperatura sulla Terra continua ad aumentare, facendoci raggiungere nell’ultimo anno temperature ben al di sopra della media. A innalzarsi è stato anche il livello dei mari, cheora minaccia le città più vicine alla costa, mentrediminuiscono le aree verdi e si riducono i terreni da coltivare. Sempre più persone risiedono nelle città con un conseguente aumento della produzione, dell’inquinamentoe conl’aria che diventa sempre più irrespirabile. Ma per combattere il cambiamento climatico, da dove bisogna iniziare? Secondo laBancaMondialeè fondamentale concentrarsi sulle città. Queste hanno un impatto primario sulla vita dei residenti che, se direttamente coinvolti, saranno più propensi a interessarsi agli eventi e al futuro della collettività. L’ultima analisi dellaBancaMondialeThriving: Making Cities Green, Resilient, and Inclusive in a Changing Climateprende in considerazione oltre 10.000 città di tutto il mondo, permettendo un confronto tra Paesi con redditi molto diversi tra loro e incentrandosi sulle tematiche di ecosostenibilità, resilienza e inclusione. I dati ci dicono che mentre le città con redditi maggiori sono quelle che emettono più elevate quantità di CO2 e inquinano pesantemente,le città nei Paesi con una minore redditività sono, invece, le principali vittime del cambiamento climatico. Quest’ultime, difatti, sono meno resilienti e quindi più soggette a subire danni durante eventi climatici disastrosi. Mentre le grandi città con redditi elevati hanno uno scoring di rischio pari a 55, per quelle con redditi medio-bassi il valore sale di 10 punti. Un divario che aumenta ulteriormente tra le città con dimensioni più piccolepassando da uno score di 47 per le prime a quello di 64 per le seconde. Non è un caso che, sempre in queste città,troviamo anche i più bassi livelli di “inclusione”, che viene intesa dallaBanca Mondialecome “l’abilità e l’opportunità di tutti i residenti di una data città di partecipare al mercato, ai servizi (intesi anche come digitali e finanziari) e agli spazi comuni (politici, fisici, culturali, sociali) permettendogli di vivere una vita dignitosa”. È proprio l’assenza di servizi basilari (comel’accesso a servizi igienico-sanitari, piuttosto che avere a disposizioneacqua potabile e sicura) che, in caso di disastro ambientale, finisce per gravare ulteriormente su una situazione già in forte difficoltà. Inoltre, nei Paesi con redditi inferiori, un’ampia fetta dell’attività economica è legata a lavori che si svolgono esclusivamente all’aria aperta e che, pertanto, subiscono maggiormente gli effetti del cambiamento climatico che può causare uno stop della produzione e dell’attività lavorativa per la popolazione. Analizzando l’indicatore “green” abbiamo, però, la situazione opposta. Le città più ricche sono spesso vittime del sovraffollamentocon una fortissima riduzione degli spazi di vegetazione. Una soluzione, secondoWorld Bank, potrebbe essereripensare le città sotto una nuova veste: la verticalità. La nascita e lo sviluppo dicittà verticalipotrebbe, difatti, apportare numerosi benefici primo tra tutti la riduzione della superficie occupata da cemento ed edifici, riuscendo così a dare un nuovo slancio alle attività agricole. Altro punto a favore è la possibile nascita di economie di agglomerazione, delle quali potrebbe beneficiare l’intera società, avvicinando le persone e creando nuove collaborazioni tanto economiche che sociali. Secondo il report un’operazione di verticalizzazione delle cittàaumenterebbe la popolazione all’interno delle stesse del 16%e, congiuntamente,ridurrebbe del 19% il suolo utilizzato. Abbiamo però un ma. La verticalizzazione presuppone la costruzione di edifici più alti e, dunque, un maggiore utilizzo di materiali come cemento e acciaiola cui produzione è fortemente inquinante. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco il ruolo dei policy maker, al fine di identificare un compromesso capace di bilanciare i vari obiettivi. I governi devono intervenire attuando, dunque, un piano su misura capace di contrastare una realtà estremamente minacciosa. Per farlo bisognerebbe partire da 5 punti, quelli che,BancaMondiale, definisce le “5 I”. La prima “I” sta per “Informazione” dato che per agire preventivamente è necessario conoscere i rischi e sapere come questi possano essere arginati, abbiamo poi gli “Incentivi” uno strumento essenziale per far sì che i piani di prevenzione vengano realmente messi in atto. Per esempio,in Rwanda si persegue l’eliminazione dei veicoli inquinanti entro il 2040. Per raggiungere questo risultato, è stato attuato nella città di Kigali un programma pilota per convertire i ciclomotori (estremamente diffusi per il trasporto pubblico nella città) inveicoli elettricisfruttando sia incentivi statali sia spingendo sul vantaggioso risparmio che gli utilizzatori otterrebbero nel lungo periodo. La terza “I” indica “Insurance” ovvero le assicurazioni, un fattore fondamentale per ridurre l’impatto finanziario in caso di calamità. “Integrazione” è la quarta “I”, intesa come una maggior collaborazione tra le varie città per il raggiungimento di un interesse comune. Ed infine “Investimenti”, il fulcro su cui ogni governo deve lavorare. Quest’ultimi rappresentano una misura indispensabile per anticipare, prevenire e rispondere in maniera rapida e adeguata agli effetti del cambiamento climatico.
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