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Facciamo come le islandesi!

 

Ai giorni nostri, l’Islandaè un vero e proprio punto di riferimento per chiunque si occupi diparità di genere. Anzi, essendo da 14 anni in vetta alla classifica delGlobal Gender Gap ReportdelWorld Economic Forum, ci provoca anche quel filo di irritazione da “prima della classe” (soprattutto considerando chel’Italia, quest’anno, è precipitata in 79° posizione). Ma forse non tutti sanno chenon è sempre stato così: ledonne islandesihanno ottenuto il diritto di voto nel 1915 (solo dopo la Nuova Zelanda e la Finlandia), ma dopo 60 anni le donne in Parlamento erano solo 9. E nel 1975 le parlamentari erano solo 3, ovvero il 5% del totale, a fronte del 23% degli altri Paesi nordici. Come si è arrivate alla situazione odierna, allora? Il24 ottobre del 1975,con un gesto che rimane nella storia, ledonne islandesiproclamarono ungiorno di fermo nazionale. E la pensarono bene anche sotto il profilo del marketing, presentandolo non come uno sciopero, ma come un giorno libero. Libero non solodal lavoro retribuito,ma anchedalle attività di cura: per 24 ore, nessuna di loro avrebbe preparato pasti, pulito case, preparato, accompagnato o ripreso figli e figlie da scuola o dalle varie attività. Leggendo i giornali dell’epoca, si racconta di un Paese paralizzato: code interminabili al ristorante, padri “costretti” a portare i propri bambini in ufficio. Pare che le salsicce (particolarmente facili da cucinare) andarono sold out. Lagiornata libera(al quale aderì il90% della popolazione femminile) fu indetta per dimostrare il ruolo fondamentale delle donne nella società islandese e perreclamare la parità salariale. Un gesto potente, accompagnato da una marcia a Reykjavik a cui parteciparono in circa 25.000 (su un totale, ricordiamolo, di 220.000 persone che rappresentavano l’intera popolazione nazionale). L’impatto di questa azione dimostrativa fu talmente evidente che la giornata rimase alla storia come“il lungo venerdì”.E un anno dopo, passò una legge che garantiva pari diritti a uomini e donne. Perché ne parliamo oggi? Perché nonostante gli evidenti progressi in tema diequità di genere(e le lezioni che il Paese potrebbe impartire a tutti gli altri), tuttora le donne islandesiguadagnano in media poco più del 64%di quanto guadagnano gli uomini. E quindi, oggi torneranno a incrociare le braccia, fermandosi sia sul posto di lavoro che in casa. Per reclamare la parità salariale, certo, ma anche perdire basta alla violenza contro le donneperché, nonostante tutto, il 40% delle islandesi sperimenta violenza di genere o sessuale almeno una volta nell’arco della propria vita. Le organizzatrici sottolineano 2 fattori fondamentali rispetto alla presenza delle donne sul mercato del lavoro. Il primo:le donne lavorano prevalentemente in settori sottopagati. Il secondo: a impattare sulla concreta possibilità delle lavoratrici di ottenere pari retribuzione è, ancora una volta, ilcarico dellavoro di curanon retribuito.Ed è arrivato il momento di affrontarli entrambi. La cura Come semprem quando si parla didonne e lavoro(retribuito e non), l’elefante nella stanza è il lavoro di cura. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il75% delle attività di cura non retribuita è ancora oggi sulle spalle delle donne. E se volessimo monetizzare tutto il lavoro di cura che le donne, nel mondo, forniscono gratuitamente, arriveremmo a circa 12.000 miliardi di dollari, secondo Oxfam.Ma le donne non si prendono cura solo in casa:spesso la cura diventa il loro lavoro. Effettivamente, secondo Eurostat,l’84% delle donne occupate in Europa lavora nel settore della cura(qualche esempio? Maestre, insegnanti e così via). E ancora una volta, si tratta di lavori fragili e sottopagati. Lo facciamo anche noi? C’è da dire che inIslandasanno come si fa: la giornata è dedicata non solo alle donne, ma anche alle persone non binarie, perché “tutte stiamo combattendo la stessa battaglia contro il patriarcato”, come sostengono le organizzatrici. Lo slogan della giornata è“Tu questa la chiami parità?”. Alla mobilitazione prenderà parte perfino laprima ministra Katrín Jakobsdóttir,per mostrare la propria solidarietà alle donne islandesi. Una delle richieste di questa manifestazione è che vengasancito per legge l’obbligo di rendere pubblici e trasparenti gli stipendiproprio in quei settori a elevata presenza femminile, nei quali la remunerazione delle donne tende a essere più bassa. Ma se le donne si fermano in Islanda, mi dico io…Perché non lo facciamo anche noi?

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