Sebbene l’espressione“sindrome dell’impostore”possa sembrare un paradosso psicologico, trova radici all’interno un’esclusione sistemica e pregiudizi capaci di mantenere le donne in uno stato diinsicurezza,minando la fiducia in loro stesse. Questo sistema fa sì che le donne si convincano di essere delle“seconde scelte” rispetto ai loro colleghi uomini, anche quando sono ugualmente o maggiormente abili e competenti. La caratteristica della sindrome, infatti, è la costante necessità e il senso del dovere didimostrare di essere degne degli spazi che vogliono occuparee delle cariche che rivestono. Oggi viviamo in un mondo in cui le donne sono intrappolate in un ciclo senza fine di reinvenzione, costrette a modificare costantemente il proprio volto, la propria fisionomia e i propri modi di fare, come prerogativa indispensabile per inserirsi. Questo accade perché è la società ad avercategorizzato la figura della donnaper singole immagini: dalla lavoratrice in giacca e cravatta, alla casalinga, dall’amica con la sua shopping bag, all’imperscrutabile boss. Nel mentre gliuomini, senza alcun pregiudizio, possono vivere tutta la loro vita senza dover necessariamente modellare il proprio carattere ocambiare i propriabiti. Questa tendenza, questo modo diadattarsiai più disparati contesti, deriva dal tessuto stesso della società, che è stata intrinsecamente costruita suldominio patriarcale,in cui le donne sono percepite come esseri socialmente mutevoli, modellabili e adattabili alla vita domestica o a qualsiasi altra estetica socialmente corretta. L’effetto dell’elaborazione sociale di una donna e la conseguente imposizione del suo ruolo, delle sue emozioni e doveri, si configura come la creazione di unlimite al suo potenziale e alle sue possibilitàÈ per questo motivo che le donne, che finalmente hanno iniziato a sfondare questo soffitto di vetro che impone loro di assumere sempre un ruolo, vengonocelebrate come eroine, come eccezioni. In un certo senso, sarebbe opportuno affermare che l’eccezionale figura della donna in carriera, moglie, con una vita sociale, è un’invenzione di unasocietà fortemente oppressiva. Come si concilia tutto questo con la sindrome dell’impostore? Come conseguenza di queste costruzioni sociali, di ciò cheuna donna può e deve essere,si è radicata la convinzione, che viene interiorizzata quasi come una verità evangelica, secondo cui la donna sia intrinsecamenteinadeguata e incompetente per certi ruolie che non debba occupare certi spazi. InAfrica, a esempio, leragazzetrascorrevano la propria gioventù in preparazione di un solo evento, un unico obiettivo, ilmatrimonio. Traguardo che nella maggior parte dei casi comportava benefici economici per le proprie famiglie. Anche nel caso di ambienti più progressisti, in cui bambine e ragazze hanno avuto accesso all’educazione, le motivazioni poste alla base di ciò sono state a lungo legate apregiudizi sociali. Una volta ho sentito un uomo anziano dire a un suo amico che “una figlia istruita vale di più in termini di dote”. Questipregiudizisono ancor più evidenti sul luogo dilavoro:quando ci si aspetta che il capo o il collega più anziano siano aggressivi per esercitare la propria autorità; che l’azienda o il progetto falliscano perché c’è una donna a capo; che i dipendenti abbiano un po’ di tregua o che siano ferocemente oberati di lavoro perché lavorano sotto la direzione una donna. Questa inutile pressione spinge le donne a fare magie perché il metro di giudizio è così pregiudicato in termini di sessismo che, per essere una donna in uno spazio (a cui non appartieni),devi essere extra-ordinariae in qualche modo devi riuscire a ottenererisultati miracolosi.Quel che è peggio è che i tuoi punti di forza e i tuoi risultati vengano celebrati comeeccezioni individuali, mentre i tuoi difetti sono valutati così in quanto donna. “Prima di tutto è unadonna…”è questo l’incipit preferito per chi attribuisce la colpa a una donna o quando questa è coinvolta. Ho sentito più volte leader di sesso maschile mettere in dubbio la competenza di un’amministratrice delegata donna a capo di una rinomata banca solo per il suo genere di appartenenza. Il trauma di questa costante reinvenzione e mutazione consiste nel fatto che tu, donna, sei sempretenuta a mantenere un’espressione normale, persino felice,quando invece le tue viscere si stanno contorcendo. La paura quotidiana di essere additate comeimpostorifa sì che molte lavoratrici o ragazze arrivino a odiarsi,dubitando di sée chiedendosi incessantemente se sono degne dei risultati da loro raggiunti. Questa lotta non si limita alle aree di avanzamento professionale, ma corrode anche la lorodignità, risuonando come un sinistro sottofondo nel tessuto delle loro vite. I traguardi e le conquiste raggiunte dalle donne, pur essendo monumentali, sono spesso avvolte da unanarrazione che suggerisce che il loro successo sia un’eccezione,un caso, un colpo di fortuna. Questo paradosso riflette deipregiudiziprofondamente radicati e parla di ciò che la famosa pensatrice femminista Chimamanda Ngozi Adichie ha definito il “Pericolo di una singola storia”. Il percorso da seguire richiede unosmantellamento collettivo di queste regoletossiche che perpetuano lasindrome dell’impostore. Come affermano le scrittrici Ruchika Tulshyan e Jodi-Ann Burey non si tratta di correggere le donne, ma piuttosto dicorreggere l’ambiente che favorisce l’inasprirsi di questi sentimenti di inadeguatezza. Così come è stato rotto il silenzio sui pregiudizi sistemici che hanno generato la sindrome dell’impostore, è ora di far emergere le storie delle donne africane che hanno infranto i massimali, non conformandosi, ma abbracciando la loro identità. La storia ci parla di donne che hanno combattuto battaglie, guidato rivoluzioni e contribuito alla società in modi inimmaginabili, e ci ricorda che la sindrome dell’impostore è a sua volta uncostrutto artificiale che cerca di soggiogare lo spirito delle donne.Rompete il silenzio! Imposter Syndrome, breaking the silence: the case for african women While the term“imposter syndrome”may sound like a psychological conundrum, ithas roots in a profoundly systemic biasand exclusion that has kept women in self-doubt and undermined their confidence. This system makes women think they are second-best alternatives to their male counterparts, even when they are equally or more competent. Particular to this system, is the constant need and duty for women to prove themselves as worthy of the spaces they want to take up and thepositions they occupy. Today, we live in a world where women are caught in an unendingcycle of reinvention, obliged to alter their faces,hues and manners as a prerequisite to fit in. It is for this reason that society has dissected the persona of a woman into the suited working woman, the pinafore-aproned housewife, cheesyred-lipsticked, tote-carrying friend and the inscrutable boss lady. Meanwhile, men, without much or no notice get to live all their lives without having to go through any character transition or costume change. Thisfashion, thismannerof adapting to contexts, stems from the very fabric of societies that have inherently been constructed as citadels for patriarchal dominance; in which women are perceived as socially malleable beings that can be rolled or moulded for the purpose of any arising domesticities or socially correct aesthetic. The effect of the social scripting of a woman and the assignment of roles, emotions and dutiesthereafter, is the establishment of a cap on a woman’s potential and the possibilities of their lives. It is for this reason that women, who have broken through the glass ceiling of these roles are celebrated as an exception. In a way, it would be prudent for one to say that the exceptional career-housewife-social woman is an invention of a socially oppressive society. How does it all fit in with imposter syndrome? Consequent to these social constructions of what a woman can and must be, the belief that womanhood is inherently inadequate and incompetent for certain roles and not supposed to be in certain spaces has become grounded and is internalized as gospel truth. Girls in Africa for instance were groomed for thesole purpose ofmarriage, which in most cases had fringe economic benefits to the parents. Even in the case of progressive movements like girl-child education, some of the rationales are still tethered to social biases. I have once heard an elderly man say to his friend that, “an educated daughter would cost more dowry.” These biases are apparent even intheplaces of work.Where the female boss/ senior is expected to be aggressive in order to command authority; where the firm or project is expected to fail because the lead is a woman, where employees are expected to be cut some slack or to be fiercely overworked because they are working under a female. This unnecessary pressure pushes women to work magic because the yardstick is such that, being a woman, in a space (where you don’t belong) you must be extra-ordinary and somehow make miraculous results. What’s worse is that your strengths and achievements are celebrated as an individual exception while your faults are not allowed individual liability. Rather, your faults are blamed on your“woman”identity.“First of all she is a woman…” is a favourite opener for all justifications of fault by or where a woman is involved. I have heard on multiple counts a male leader question a female CEO’s competence to lead renown bank because of her gender. The trauma of this reinvention is the duty to maintain a normal, even happy face when your insides are twisted and screaming. The daily fear of being called out as animposterputs many of thewomenthrough bouts of self-hatred,self-doubtand incessantly questioning whether they are worthy of their accomplishments. This struggle isnot just confined to the areas of professional advancement, but also corrodes their dignity and resonates with a sinister undertone across the fabric of their lives. The achievements of women, though monumental, are often shrouded in a narrative that suggests that their success is an exception, a fluke, or a mere result of luck. This paradox reflects the deeply ingrained biases and speaks to what renowned feminist thinker Chimamanda Ngozi Adichie termedthe Danger of a single story. The path forward requires a collective dismantling of thesetoxic norms and biasesthat perpetuate imposter syndrome. AsRuchika TulshyanandJodi-Ann Burey, It’s not about fixing women but rather about fixing the environment that fosters these feelings ofinadequacy. Just as the silence was broken on the systemic bias that birthed imposter syndrome, it is time to break forth stories ofAfrican womenwho shattered ceilings not by conforming but by embracing their identities. As history speaks of women who fought battles, led revolutions, and contributed to societies in ways unimagined, it’s a reminder that imposter syndrome is an artificial construct that seeks to subjugate the spirits of women. Break the silence!
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