Questo è un Paese in cui i dati trovano poco appiglio. In cui non gli si crede fino in fondo, come spesso non si crede fino in fondo alla scienza. Ed è un peccato, perchéil dato (così come la scienza) tende a semplificare la vita dell’essere umano, a fornirgli uno strumento di comprensione (e di salvezza). Ieri era l’International Equal Pay Day, laGiornata Internazionale dedicata alla Parità salarialevoluta dall’Onu per puntare i riflettori sulladisparità salariale tra uomini e donnee sulla necessità di superarla, in una prospettiva di benessere collettivo. I dati sono agghiaccianti: nel mondo, secondo le Nazioni Unite,le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini. Moltiplicatelo per i guadagni di una vita e potrete farvi un’idea della dimensione del fenomeno. E infatti, non a caso,le pensioni delle donne sono strutturalmente più modeste e maggiormente a rischio di povertà. Siamo vittime tutte e tutti di una narrazione collettiva errata. Anche nel nostro Paese. Abbiamo una donna alla Presidenza del Consiglio, una donna alla guida del principale partito d’opposizione e tanto ci basta per pensare che il problema della parità sia ormai alle nostre spalle. Piacerebbe anche a me, eh, ma non è così. Secondo le Nazioni Unite,per raggiungere la parità salariale, a questo ritmo, saranno necessari ancora 257 anni. Non la vedranno le mie figlie, né le figlie delle mie figlie. E neppure le loro nipoti. Il problema è, ovviamente, strutturale. Eurostat ha elaborato un indicatore a cui ha attribuito un nome non semplicissimo: ilGender Overall Earnings Gap. Questo indicatore misura tre fattori:guadagno orario,ore lavorate (e retribuite) e tasso di occupazionee stima il loro impatto sul reddito mensile medio, disaggregandolo per genere. In altre parole, misura quindi il gap complessivo sui guadagni di uomini e donne. Nell’ultima elaborazione, quella del 2018,la disparità ammonta al 36% nella media europea e al 43% per l’Italia. Alcune riflessioni sulla dinamica dei dati. In primo luogo,la disparità aumenta all’aumentare dell’età. Mentre sotto i 30 anni è solo all’8%, aumenta al 14% tra i 30 e i 49 anni e sfiora il 28% dopo i 50. Proseguiamo:la disparità aumenta(anziché ridursi, come sarebbe intuitivo)all’aumentare del titolo di studio. Mentre supera il 16% tra donne e uomini che non hanno conseguito il diploma, arriva al 17% tra chi ha ottenuto un diploma e supera il 29% tra coloro che hanno raggiunto l’agognata laurea. Un altro dato controintuitivo, in un sistema che non fa in modo che le donne arrivino a posizioni di vertice (ricordiamo insieme che le donne Ceo sono l’8% del totale). Il dato è questo:man mano che le donne progrediscono nella carriera, all’interno del loro settore, le discriminazioni aumentano, anziché diminuire. Tra i dirigenti, supera il 33%, tra i professionisti il 29%. Non è un fenomeno episodico:è strutturale. Nel mercato del lavoro, la presenza delle donne è episodica, viene in molti Paesi (tra cui il nostro) percepita come un’anomalia,difficilmente trova la quadra con la maternità(pensiamo, a esempio, ai titoloni sui giornali che siamo costretti a leggere in quei rarissimi casi in cui le donne incinte vengono assunte. Ecco, quei titoli sono in sé un dato). Non è un’impressione: le persone inattive, nel nostro Paese (ovvero, quelle persone che non sono né occupate, né disoccupate e, pur essendo in età lavorativa e potendo lavorare, rimangono fuori dal mercato del lavoro), non sono rappresentate nella stessa quota. In Italia,gli inattivi sono il 26% degli uomini e il 45% delle donne,secondo Eurostat. Le donne non sono attive sul mercato del lavoro, la loro competenza tende a essere sottostimata anche nei ruoli di vertice e questo rappresenta un vulnus collettivo. Peccato che non siamo sistemicamente ancora pronti per capirne la portata e proporre soluzioni.
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