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Cina: dopo 2 anni torna la deflazione

 

Mentre lebanche centrali di Europa e Stati Unitisono alle prese con la spirale inflativa che fa aumentare i prezzi dei beni a sfavore della capacità di acquisto dei consumatori, dall’altra parte del mondo laCinasta vivendo il problema esattamente opposto. Si chiamadeflazione, il cugino apparentemente meno dannoso dell’inflazione ma egualmente pericoloso, che consiste in unadiminuzione generalizzata dei prezzie un conseguenteincremento del potere di acquisto della moneta. Può manifestarsi a seguito di una forte caduta della domanda da parte dei consumatori, fino a creare pressioni pericolose sui prezzi e anche sui salari. La deflazione infatti è sintomo di unarecessionedell’attività economica e dell’occupazione di un Paese, proprio perché nonostante l’aumento del potere d’acquisto i cittadini preferiranno comunqueposticipare acquisti e investimentinell’attesa di ulteriori ribassi dei prezzi. Con una diminuzione ulteriore della domanda quindi le imprese saranno costrette ad abbassare sempre di più i prezzi dei loro beni fino ad arrivare al punto diridurre gli stipendi e addirittura licenziare molti lavoratoripur di rimanere sul mercato e onorare i loro debiti. Dopo idati negativisu import (-12,4%) ed export (-14,5%), le rilevazioni dell’Ufficio nazionale di statisticamostrano unindice dei prezzi al consumoa-0.3%, segnando l’ingresso della Cina in una situazione di deflazione che – fatta eccezione una breve parentesi a inizio 2021 a causa del crollo del prezzo della carne di maiale – il Paese non vivevadal 2009. Tutta colpa di una scarsa domanda interna, di un calo della produzione che perdura ormai da 5 mesi e di unacrisi senza eguali del settore immobiliare– che da tempo rappresenta un quarto del Pil cinese – trainata da sovraindebitamento e crisi di liquidità di colossi del mattone comeEvergrande, che soffre di un debito pari a 300 milioni di dollari, eCountry Garden, indebitata per circa 200 miliardi e incapace di pagare i propri obbligazionisti entro le scadenze. La mancata ripartenza dei consumi interni dopo l’allentamento delle stringenti misure anti-Covid cinesi ha contribuito a creare un clima allarmante nell’imprenditoria del Dragone, che per correre ai ripari è costretta a ridurre la produzione, bloccare le assunzioni elicenziare, andando quindi ad alimentare il problema delladisoccupazione(specialmente giovanile) che in Cina ha toccato illivello record di 20,8%(incredibilmente vicino a quelloitaliano). A pesare sulla situazione di allarme c’è anche l’ordine esecutivoappena firmato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden e finalizzato alimitare gli investimenti statunitensi in Cinanel tentativo di ostacolare le capacità di Pechino nello sviluppo di tecnologie militari e di sorveglianza. Si tratta dell’ultima misura targata Usa perimpedire l’accesso della Cina a tecnologie all’avanguardiache potrebbero migliorare la sua potenza militare. Atteggiamento verso la Cina che aveva già preso il via con la proliferazione di dazi imposti dal precedente inquilino della Casa Bianca Donald Trump. Si tratta di regolare gli investimenti dei fondi di investimento e le società di venture capital nelle imprese tecnologiche cinesi attive nei sensibili settori deisemiconduttori di ultima generazione, intelligenza artificiale e informatica quantistica. Contemporaneamente, gli States aprono strade di approvvigionamento alternative intensificando gli scambi con l’India, il Messico, Tailandia e Vietnam, anche se ladipendenza economica con la Cina non subirebbe forti scossoni. Non solo il Dragone rimane un grande acquirente dei titoli di stato americani, ma pare perfino che i nuovi alleati degli americani non siano altro che centri di imballaggio dimerce cinese riconfezionata per aggirare i dazi.

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