A leggere alcune critiche feroci e a vedere alcune alzate di sopracciglia di amici e parenti che degradano il tutto a “americanata” e marchetta, può sembrare che l’unico aspetto rilevante di questofilmsia la massiccia operazione di merchandising per promuovere il celebre brand diMattel. In realtà basterebbe leggere alcuni dati (più di 2 milioni di euro di incassi in Italia solo nel primo giorno di programmazione) e osservare alcuni fenomeni di costume di questi giorni per capire che c’è altro. Gli uomini e le donne più austere e insospettabili hanno avuto per 24 ore la scusa per mettere da parte ansie da bilanci di fine stagione e prenotazioni vacanziere per coronare il loro sogno inconfessabile divestirsi di rosa,facendo prender aria a quella camicia o vestitino dal colore impossibile, comprati 30 anni fa e rimasti da quel dì a far la muffa nell’armadio. In un solo giorno la catenaZaraha registrato iltutto esaurito della collezione speciale Barbie;il giorno dopo, invece, c’è stato ilrecord dei resi della stessa catena.Come dire: basta una sola volta, oggi mi vesto di rosa e da domani torno a essere la personcina seria e affidabile di prima. Per non parlare del signore distinto e compito seduto in sala poco distante da me, che a un certo punto durante la visione è scoppiato in singhiozzi incontrollati.Sicuri che si tratti solo di un’americanata? Era una grande sfida riuscire a maneggiare un materiale così incandescente, contraddittorio e codificato nell’immaginario collettivo, liberando dalla scatola quella che per quasi 65 anni è stata fonte di gioco e piacere per generazioni di bambine, additata da orde di sociologhi e pedagoghi come strumento di degenerazione culturale eportatrice di ideali consumistici e modelli estetici irrealisticie pericolosi (anche per la mancanza di organi genitali!). Ma la regista e co-sceneggiatriceGreta Gerwig, da sempre sensibile al mondo femminile, ha compiuto la missione quasi impossibile e (pur rimanendo nel solco commerciale del brand) è riuscita aconservare la propria libertà artistica e creativae a fare, paradossalmente, il suo film più personale e libero rispetto al passato: finalmente libera lei stessa dai vincoli letterari diPiccole Donnee da quelli autobiografici diLady Bird. SeBarbieha fatto parlare di sé per tutto il tempo in cui è rimasta sugli scaffali è perché incorpora alla perfezione le idee mutevoli della società sulle donne. La celebre bambola, che nel bene e nel male rappresenta la cultura occidentale, è da sempre tutto e il contrario di tutto:stereotipo basato sui desideri maschili,da una parte, eemblema dell’emancipazione femminilee portatrice del messaggio che qualunque bambina può essere chi vuole, dall’altra. Simbolo delconsumismo, da una parte, edolce ricordo dell’infanzia,dall’altra. E Gerwig ha riassunto alla perfezione tutti questi aspetti, rimanendo fedele alla bambina che un tempo trascorreva i pomeriggi a vestire le bambole, così come all’adolescente che ha liquidato queste cose come infantili, fino alla ventenne che ha iniziato a vedere le Barbie come qualcosa di problematico, in una sorta di incontro tra queste “sé” più giovani che, grazie alla mediazione della versione di sé più matura e più saggia, avviene magicamente sullo schermo dietro al luccichio visivo. Basterebbe solo l’inizio e la fine di questo film per decidere di andare a vederlo. Ma tra il geniale incipit con la parodia di2001 Odissea nello Spazio,che racconta la genesi del giocattolo più venduto al mondo, e la battuta fulminante pronunciata dalla protagonista nel finale c’è molto di più:quasi 2 ore di splendore visivo kitsch e ipercolorato,con costumi, scenografia e fotografia sfavillanti, citazioni, spunti e dettagli a raffica, fondendo alla perfezionedivertimento, nostalgia, marketing e lievi critiche alla società contemporanea,senza però mai prendersi troppo sul serio e soprattutto senza cadere nella trappola del #metoo e del politically correct, ma anzi facendosi spesso beffa degli stessi. La storia è semplice:Barbie(o meglio Barbie stereotipo) vive da sempre inBarbieland, un paradiso di plastica dove le giornate si susseguono tutte uguali, dove tutto è perfetto enon esistono problemi di pari opportunitàperché quicomandano le donne,che sono tutte Barbie praticamente perfette, mentre gli uomini, che sono tuttiKenaccessoriati e palestrati, esistono comemere appendici idiotedelle prime e nella perenne attesa che lo sguardo di queste si posi su di loro. Un bel giorno Barbie/Eva entra in crisi esistenziale e per ritrovare se stessa, in una sorta di libera rivisitazione del Libro della Genesi, lascia insieme a Ken/Adamo il giardino dell’Eden eparte alla volta del mondo reale,per scoprire con sgomento che questo (una Los Angeles ancora più plasticosa diBarbieland) è molto diverso dal mondo fatato in cui vive. E mi fermo qui per non spoilerare. Se da una parte la regista americana può essere accusata difurbizia e autoreferenzialitàpoiché si rivolge a un pubblico che conosce bene (quello adulto che ha smesso da anni di giocare con le Barbie piuttosto che i ragazzi di oggi) e non rinuncia a celebrare il brand, dall’altra (facendola interpretare a unaMargot Robbieche più Barbie non si può), evita le trappole della cultura neo-liberal che si aspetta la celebrazione diBarbie come icona postfemminista. Ma ad avere i momenti più esilaranti e intelligenti del film èKen, grazie all’interpretazione diRyan Goslingche abbandona il ruolo del bel tenebroso per assumere per la prima volta un registro comico (questa volta voluto, e non tragicamente involontario come inLa la land). Ed è proprio Ken, dallo sguardo goffo e malinconico, cheveicola il vero messaggio politico del film,incarnando alla perfezione la metafora della crisi del maschio contemporaneo che, per quanto ancora dominante a livello lavorativo ed economico, è costantemente dolente e incerto a livello emotivo, sessuale e famigliare. Barbie è ben lungi dall’essere un film perfetto e la narrazione si perde spesso nel nonsense, ma alla fine è la prova plastica che, come la sua protagonista merita di esistere per quello che è e non per quello che fa,una storia è degna di essere raccontata per quello che è e non per quello che ci aspettiamo che sia, senza per forza approfondire tematiche spinose come quella sui ruoli di genere, come se si parlasse di un trattato scientifico e senza per forza rispondere in modo esaustivo a istanze politiche, sociali e culturali. E di queste istanze la regista stessa sembra prendersi gioco in unmonologo a effettosul ruolo della donna nella società odierna fatto pronunciare da un personaggio umano. In realtà, divertimento, leggerezza e riflessione (leggera) possono andare di pari passo senza escludersi per forza a vicenda. Anche solo vedere per un giorno una sala piena elasciarsi andare per 2 ore a risate e piantifini a se stessi non è cosa da poco di questi tempi. E non dimentichiamoci che alla fine stiamo parlando solo dicinema.
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