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Lavoro: la doppia penalizzazione delle donne straniere

 

Sono più della metà della popolazione non italiana residente nel nostro Paese (il51%, secondo le stime più aggiornate). Sonodiscriminate. Come non italiane, e come donne. Soprattutto nellavoro. Sono i quasi2,6 milioni di donne straniere che vivono in Italia. La maggior parte di loro sonoromene, albanesi, marocchine, ucraine e cinesi, ma i dati disponibili non tengono conto del numero complessivo di ingressi dall’Ucraina dopo lo scoppio del conflitto. Le nazionalità con la maggiore incidenza femminile sono laTailandia (9 residenti in Italia su 10 sono donne) e l’Indonesia. A dirlo è (di nuovo, dopol’approfondimentodel luglio 2021)Openpolis, che in un lungo articolo analizza adoppia penalizzazione che le donne stranieredevono subire.Su di loro, infatti,razzismo e disparità di genereagiscono insieme, condannandole a una discriminazione su più livelli: “svolgono mansionidequalificaterispetto al grado di istruzione e ricevonoretribuzioni più basse”, sia rispetto agli uomini che alle donne non straniere. Ilsotto-mansionamentoè un problema che accomuna tutte lepersone senza cittadinanza:come spiega ilcentro studi e ricercheIdos, non solo hanno una “occupabilità” (ovvero una probabilità di avere un lavoro) inferiore rispetto ai cittadini, ma anche la qualità dei lavori a cui riescono ad accedere è inferiore: “la probabilità degli stranieri di evitare lavori dequalificati – concludeOpenpolis -è molto inferiore rispetto ai cittadini autoctoni”. Quanto inferiore lo dicono i numeri: ben 48 punti percentuali di differenza. Secondo i datiEurostatèsovraqualificato il 19,1% degli italiani e il 67,1% degli stranieri non comunitari,3 volte di più. In Europa, la media è del 18,8%: quello del nostro Paese è il tasso più alto. Ma le donne sono le persone che più frequentemente fannolavori ben al di sotto delle loro qualifiche: nell’Unione europea, continuaIdos, in media ladifferenza tra uomini di cittadinanza extra-comunitaria e autoctoni è di 16,3 punti percentuali. “Nel caso della popolazionefemminilesi sale a21,6: con tassi pari rispettivamente al 21,3% e al 42,9%”. Sono soprattutto ilavori di cura e assistenza alle persone(e, più in generale, quelli dei “servizi collettivi e personali”) che sono occupati da donne che nel loro Paese avevano titoli e qualifiche per accedere a professioni diverse. In questo settore è occupato il42,7% delle donne senza cittadinanza,e solo il 7,3% delle donne italiane. Sotto-qualificazione e lavori considerati “di basso livello” si traducono anche inretribuzionipiù basse. Almeno 300€ al mese di reddito netto meno delle donne italiane, diceIdos. Ma anche in questo caso non è solo la variabile dellanazionalitàa pesare sulle disuguaglianze, ma anche ilgenere, in un intersecarsi di disuguaglianze. Se è vero, infatti, che gli stranieri hanno paghe mediane lorde inferiori agli italiani (10,6 euro l’ora contro 12), come sappiamo fin troppo bene il gender gap è anche retributivo: la differenza di stipendi tra uomini e donne in Italia è in media del 5,5%. Non solo: secondoIstat, “i dipendenti con contratto a tempo determinato hanno una retribuzione media oraria più bassa del 29,7% di quelli con contratto a tempo indeterminato. Nel part-time, che interessa soprattutto donne, il divario, rispetto al full-time, sale al 31,1%.Le donne guadagnano meno degli uomini. Il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). […] Le lavoratrici dipendenti guadagnano circa 6.500 euro in meno dei lavoratori, anche per effetto del più basso numero di ore retribuite”.

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