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Eco ansia e negazione

 

Nella nostra esperienza ci capita spesso dinon vedere, anche cose che sono evidentemente davanti ai nostri occhi. Non è una situazione agevole, ma nel momento in cui qualcuno ci segnala che non stiamo vedendo, per esempio un ostacolo, possiamo ravvederci ed evitare un pericolo. Altra cosa è la condizione dinon vedere di non vedere. In quel caso ad agire non sono solo gli organi della vista ma quello che potremmo chiamare losguardo mentaleosguardo interiore. Per certi aspetti si tratta di un paradosso ma scambiamo quello che stiamo vedendo per quello che non è o, addirittura, ci disponiamo a negare l’evidenza. Si tratta di un meccanismo emozionale e mentale noto fin dai tempi di Freud: ildiniego o negazione. Le ragioni che danno vita a questi nostri comportamenti basati sulla negazione o sulla rimozione dell’evidenza sono abbastanza note e hanno a che fare principalmente conl’elaborazione dellapaurae con la necessità di rassicurazione. La negazione è capace di manifestarsi anche di fronte a eventi particolarmente problematici e catastrofici, e in quel caso si configura comedissolvenza delle reazioni emozionali che un evento catastrofico o distruttivo causa in prima battuta. È importante considerare con attenzione questo fenomeno perché il bisogno di sicurezza e rassicurazione è stato ed è un elemento fondamentale per l’evoluzione della nostra specie. Se non avessimo potuto contare sulla nostrapropensione a ricorrere alla rassicurazionederivante dalla continuità e dall’abitudine, probabilmente non saremmo qui. Il fatto è che per noi umani una delle questioni più critiche è trovare la giusta misura. Accade così che dissolvendo le emozioni derivanti da un evento critico ricorrendo alla ricomposizione e alla forza dell’abitudine – e, quindi, negando le implicazioni più ampie e rifiutandosi di volgere lo sguardo alla ricerca delle cause di quel singolo evento -, possiamo incappare in conseguenze indesiderabili, ancora più grandi della gravità dell’evento che abbiamo di fronte. Questo significa che non solo sbagliamo a riconoscere la causa dell’evento che abbiamo di fronte, maper cercare di superare l’ansia che lo stesso ci procura tendiamo a normalizzarloe a ricondurlo a qualcosa che conosciamo già e che in una situazione precedente siamo stati capaci di affrontare e superare. L’ansiache ci procurano gli eventi catastroficiche si ripetono sempre più spesso,correlati evidentemente alla crisi ambientale e climatica, vengono risolti cercando di negare la relazione fra il problema generale delle nostre responsabilità, riguardo alla distruzione della vivibilità sul pianeta Terra, e cercando di sostenere, come abbiamo fatto di fronte all’emergenza pandemica di Covid-19, che “andrà tutto bene” e tutto si ricomporrà tornando come prima. È proprio quello che ha fatto il governatore dell’Emilia-Romagnanelle ore più gravi delle alluvioni che hanno distrutto una parte così importante di quei territori; così come è proprio quello che fanno, nella maggior parte dei casi, gli abitanti di quei territori. Se da un lato un atteggiamento propositivo e attivo nell’affrontare la crisi è certamente encomiabile, dall’altro, non solo si evita di mettere in rapporto quanto accade con le sue cause più ampie, ma soprattutto non si dice che andrà “come saremo capaci di farla andare”,assumendoci le nostre responsabilitàriguardo a un effettivo cambiamento del modello di sviluppo e, finalmente,all’assunzione del limite come condizione di ogni possibilità. Scopriremmo cosìle connessioni chiare ed evidenti tra gli eventi catastrofici contingenti e le cause ampie che vengono da lontano, i cui nodi giungono al pettine, e saremmo in grado di riconoscere non solo le questioni ecologiche, climatiche e territoriali che stanno alla base di quanto accade, ma anche le interdipendenze tra i nostri standard di vita, le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse e nella loro appropriazione, e le ingiustizie sociali che la crisi climatica evidenzia in una maniera sempre più chiara. A questo punto naturalmente interviene una domanda: ma se la situazione è così evidente e gli eventi che la confermano sono purtroppo sempre più frequenti,perché ricorriamo alla negazione?Oltre alle ragioni già indicate è probabile che sia importante considerare almeno altri due fattori, con cui necessariamente dobbiamo fare i conti. Il primo riguarda la tragica incidenza deldualismo nel nostro modo di ragionare e di percepirci come specie umana, un’incidenza che viene da lontano e che ci ha fatto concepire (come documentano le grandi narrazioni che noi stessi abbiamo fatto per descriverci come specie umana) sopra le parti nel sistema vivente:l’idea implicita e persistente che tutto quello che esiste sia stato creato per la specie umanaè una convinzione tacita che governa ancora i nostri orientamenti e le nostre scelte – un’idea paradossale per una specie che nella formahomo sapiensesiste sul pianeta Terra da non più di duecentocinquantamila anni, mentre il pianeta ha circa quattro miliardi e mezzo di anni. La separazione uomo-natura con la presunzione di superiorità rappresenta uno degli ostacoli principali a cambiare idea e comportamento rispetto alla crisi ambientale e climatica. Il secondo fattore, se possibile più impegnativo del primo, riguarda l’elaborazione della ferita narcisisticachel’homo sapienssi trova ad affrontare nel momento in cui quella presunzione di superiorità deve essere messa in discussione se si intende avere ancora delle possibilità per la vivibilità della specie sul pianeta Terra. E allora, intanto, neghiamo e poi si vedrà. A Sciacca, in Sicilia, c’è una vineria che si chiama “Po’ si viri”, poi si vedrà, appunto.

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