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Io phubbo, tu phubbi, egli phubba

 

Il nostro dizionario si rinnova su base quotidiana per la necessità diintegrare fenomeni veloci e improvvisi,che spesso lo sono al punto da lasciarci senza parole. Così mi immagino la frustrazione accumulata da chi per mesi, se non anni, ha maturato un fastidio derivato dall’abitudine di parenti, familiari e amici diignorare le persone per iltelefono. Una tensione psicologica alimentata dalla difficoltà nell’esprimere quella mancanza, soprattutto visto che, a essere onesti, molte delle persone che subiscono questa indifferenza digitale sono i primi a metterla in campo a loro volta. Oggi, però, sono armata di una nuova parola che dà un nome e un’entità al problema. Ignorare le persone a favore del cellulare è un atto definitophubbinge, sebbene il termine sia in circolo da un po’,i suoi effetti sono abbastanza sconosciuti.La ricerca pubblicatadaPsychological Reportse condotta in Turchia ha scoperto che le persone che si ritrovano a essere ignorate per lo smartphone da coloro con cui intrattengono un rapporto amoroso, sonomeno soddisfatti dalla relazionein sé e la considerano discarsa qualità. Verrebbe da dire che qualsiasi persona ignorata sviluppi una normalereazione emotiva di insoddisfazione,se non dirabbia. Probabilmente capita anche a chi vieneignorato per la televisione o per altri dispositiviche consentono l’intrattenimento individuale. Ciò che rende preoccupante sia il risultato dello studio che l’atto in sé, è laversatilità del phubbing. Losmartphone, infatti, non ha bisogno di uno spazio specifico o di un contesto per essere usato ela dipendenza dallo schermo non ha limiti. L’individuo che ignora gli altri con lo sguardo incollato sul dispositivo rischia di farlo conamiche e amici, parenti, partner, colleghe e colleghidi lavoro, compagni di squadra e persino con sé stesso. Anzi, il più delle volte iltelefonodiventa lasoluzioneimmediata alsenso di vuotogenerato dal silenzio dellasolitudine. La noia è stata interamente assorbita dalla possibilità di riempire il tempo con “qualcosa”, la cui qualità o il cui contenuto non è rilevante: ciò che conta è la sua presenza. Così, il tedio e la lentezza svaniscono dalle nostre vite, che iniziano a smettere di essere vissute e sono semplicemente trascorsein attesa del prossimo stimolo vincente.Un video con un attacco particolarmente carino, un’immagine, un’informazione virale o il semplice atto di scrollare un’offerta virtualmente infinita. Isocial mediasono diventati l’equivalente ipercontemporaneo dei centri commerciali. Si entra inizialmente mossi da unoscopo preciso,un profilo da guardare, una foto da recuperare o condividere, un augurio da esprimere, ma si finisce a osservare tutte le “vetrine” inattesa di qualcosa che catturi davvero l’interesse.Un prodotto riesce a fare breccia (con fatica visto il crescentesovraccarico di stimoli eproposte) e cattura l’utente, spingendolo a soffermarsi, riflettere e, se il prodotto è veramente di interesse, a ricondividerlo, lasciare un like o un commento. Come in un negozio, con la differenza che l’azione che conferma l’apprezzamento della merce non è necessariamente positiva. L’equivalente di un sacchetto contenente l’oggetto è la reazione, quale che sia. Una risata e una smorfia disgustata hanno lo stesso valore: è infatti la loro presenza, che l’algoritmopercepisce in termini disecondi impiegati nella visione(magari ripetuta) di un contenuto. Queste reazioni, per quanto veloci,lasciano tracciasul noi esterno; sulviso chino sullo smartphonene appare il segno e chi si trova nella stanza in “nostra compagnia” può leggerlo, ma non per questo prendervi parte. Anzi, rischia solo di sentirsi ulteriormente tagliato fuori. Nell’allontanare gli affettiscaviamo fossati profondi tra noi e il resto del mondo, finendo per sposare unisolamento digitalegremito di emozioni virtuali. Lo stress del cellulare però non conosce limiti, soprattutto perché ilphubbing non viaggia mai da solo. Molte persone sviluppano unarelazione morbosa con il proprio smartphone:a lui va ilprimo pensiero da sveglied è con la sua luce fredda stretta tra le dita checi si addormenta.Il fenomeno della dipendenza da telefono è altamente diffuso (secondo il rapportoEuresparliamo di un’incidenza pari all’82% dei giovani)e tollerato. Infatti, avere il cellulare sempre a portata di mano èconsiderato normale. Non stupisce perciò che la dipendenza sia accompagnata dallanomofobia, ovvero dallapaura incontrollata di trovarsi sconnessi o senza smartphone. Una paura che sfocia agilmente in problemi diansia,soprattutto quando si ibrida con altre preoccupazioni come laFOMO, la paura di perdersi qualcosa e di essere tagliati fuori. Il comportamento di compensazione, quello che aiuta a gestire l’ansia ma che di fatto rimane disfunzionale in quanto la alimenta, è l’intensificazione del legame. Il telefono viene accudito,messo in carica, possibilmente accanto al letto, viene interpellato in qualsiasi momento,mentre si mangia, mentre si guarda un filmo si sta passando quel tempo destinato alle compagne o ai compagni di vita. Le dita sviluppano calli, le batterie degli smartphone ribollono e le applicazioni offrono aggiornamenti sempre più pesanti, così tanto invadenti da dichiarare la necessità di sostituire il telefono prima ancora del tempo. Nel mentre, siamoimmobili e connessi, tacitamente sovraeccitatida un oggetto checi connette a tutto, tranne che a chi sta nella stanza è insieme a noi. Di fatto,siamo disposti a ignorare tutti e tutto, ma non glischermi. Quelli mai. Sono diventati la nostra relazione preferita, ricca distimoli passivi,adattabili e in grado di rinforzare sempre ciò che pensiamo, nel bene e nel male. Verrebbe da paragonarli allo specchio d’acqua in cui Narciso si è perso, ma non sarebbe esatto: Narciso si è perso nell’immagine di sé, mentre noi stiamo andando oltre. Ci stiamo smarrendo nell’idea di come vorremmo essere percepiti e nell’abisso di un iperpresenza digitale che è talmente ricca da essere di fatto vuota. Gli smartphone non ci mostrano il lato migliore di noi stessi, ma ci educano a credere di poterlo generare con un contenuto, con un’interazione. Esistiamo nell’idea di essere visualizzati,non più in quella di essere percepiti;ci illudiamo di poter moltiplicare le interazioni digitali, recidendo quelle analogiche e complesse e ci crogioliamo nel rinforzo positivo con cui gli schermi ci avvolgono, sedando la consapevolezza della solitudine crescente che ci circonda.Finiamo con il phubbare anche noi stessi.

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