Carichi di lavoro ingestibili, superlavoro prolungato, ambienti di lavoro tossici. Potremmo pensare che siano la realtà di qualche lavoratore sfortunato, ma sonocondizioni professionali sempre più comuni. La presa, dura a morire, dellahustleculture,la retorica del “oggi mezza giornata” rivolto a chi non si sobbarca ore di straordinari gratuiti,la necessità di essere sempre connessiperché sempre “indispensabili”, si traducono in un aumento delle persone che soffrono della cosiddetta “sindrome da burnout”, una condizione che porta a esaurire le proprie risorse psico-fisiche e alla manifestazione di sintomi psicologici come apatia, nervosismo, irrequietezza, demoralizzazione, in alcuni casi accompagnati da manifestazioni fisiche. Si è parlato molto diburnoutdurante l’emergenza Covid, soprattutto in relazione ai “lavoratori essenziali”. Poi, come ci siamo dimenticati di loro,abbiamo smesso di parlare anche dello stress lavoro-correlato, salvo stupirci dei numeri deiquiet quitterse delle dimissioni volontarie. Invece, dovremmo parlarne eccome, non fosse altro perchéi tassi continuano a salire: nel sondaggio di febbraio 2023 condotto su 10.243 lavoratori globali dal think tank statunitenseFuture Forum,il 42% ha riferito una condizione di burnout, la cifra più alta da maggio 2021. Eppure, anche prima della pandemiala situazione non era affatto rosea. Almeno l’85% degli Italiani, infatti, secondo una ricerca diAssosalutesoffriva di disturbi legati allo stress ben prima del paziente zero di Codogno. E non era una condizione specifica del Belpaese, come mostrava uno studioGallupdel 2018, secondo cuiil 67% dei lavoratori Usa aveva sperimentato ilburnoutsul lavoro. Nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)ha incluso il burnout nella Classificazione Internazionale delle Malattie,definendolo un “fenomeno professionale”, piuttosto che una condizione medica. Secondo la ricercaThe Workforce View 2020, realizzata da Adp, il 62% degli intervistatiprovava stress almeno una volta alla settimana, una percentuale che arrivava al 68% nel Nord America. Dati che, questo è vero,il Covid-19 ha solo peggiorato. A dirlo non è solo la nostra esperienza empirica, ma anche gli studi: il 67% degli intervistati, secondo uno studio condotto su 1.500 lavoratori statunitensi marzo 2021, riteneva cheilburnoutfosse aumentato durante l’emergenza. Eppure, ora della pandemia si parla al passato, ilburnoutè più presente che mai. Questo è legato a quello che Sean Gallagher, direttore del Center for the New Workforce presso la Swinburne University of Technology di Melbourne definisce aTimeun “effetto residuo in termini di burnout”: molte persone stanno faticando a ritrovare il proprio benessere personale e professionale, anche a causa dellenuove modalità di lavoroche il Covid ha reso prima necessarie e poi parte della quotidianità di moltissimi lavoratori. Sebbene il lavoro a distanza (smart o meno) abbia offerto ai dipendenti una maggiore autonomia, infatti,il prezzo della flessibilità è spesso in termini di possibilità di staccare realmente. Secondo un sondaggio dall’Adp Research Institute, a esempio,le ore lavorative si sono estese: i dipendenti hanno lavorato 8,5 ore di straordinari non retribuiti ogni settimana, rispetto alle 7,3 ore prima della pandemia. Reperibilità 24/7, videoriunioni che potevano essere email, disconnessione impossibilee orari estesi sono solo alcune delle conseguenze della pressione delle aziende affinché i dipendenti lavorassero più a lungo, anche nel loro tempo libero, per massimizzare i profitti, e che per moltissimi lavoratori e lavoratrici si sono tradotti in sindrome daburnout. Burnout che, ha spiegatoAlex Soojung-Kim Pang, autore di Riposati: perché ottieni di più quando lavori di meno, aTime,le aziende hanno considerato una responsabilità del lavoratore: “è qualcosa che ti succede. In genere è stato trattato nella stessa categoria della salute e del fitness, piuttosto che un fenomeno che il datore di lavoro consente che si verifichi a causa di determinate condizioni sul posto di lavoro. Il burnout è un problema organizzativo, lasciato all’individuo da affrontare”. Anche molti dei benefit che sembrano pensati per prendersi cura del benessere dei dipendenti, continua Pang prendendo come esempio delle aziende Big Tech,non sono che l’ennesima trappola per spingerci a lavorare di più:“vantaggicome il lavaggio a secco e gli chef di sushi aiutano a mantenere il dipendente in ufficio il più a lungo possibile, piuttosto che a ridurre il burnout. In effetti, si sta creandoun ambiente di lavoro confortevole in cui le persone possono lavorare fino alla morte”. Anche Gallagher è d’accordo. “Offrire ai lavoratori app di meditazione o yoga di tanto in tanto non è una brutta cosa, maè una soluzione temporanea e “cerotta” i problemi strutturali: orari eccessivamente lunghi, superlavoro e incertezza su accordi di lavoro flessibili”. E quindi? Come possiamo cambiare le cose?E, soprattutto, possiamo? Forse no, dicono i due esperti. Sicuramente no, se continueremo a pensare il mondo del lavoro nel modo in cui lo facciamo adesso,come se qualsiasi cosa facciamo fosse questione di vita o di morte, anche quando non lo è. “In realtà, dovrebbe esserci solo una frazione delle occupazioni in cui dovrebbe verificarsi ilburnout:quando mettersi ripetutamente in gioco potrebbe salvare vite umane”, afferma Pang. “Ma in questo momento, in troppi luoghi di lavoro, dipende dalla tolleranza di un individuo alle lunghe ore, al superlavoro e alla fatica, che ne soffra o meno”. Per questo, sempre più persone dicono basta e sono pronte a rifiutare un lavoro se influisce negativamente sulla propria vita: secondo ilRandstad Workmonitor 2023, lo farebbe più di una persona su 2, il 58% del totale. Ma per cambiare davvero le cose è la narrazione – del lavoro e del burnout – che deve cambiare: non una responsabilità individuale di chi “non ce la fa” ma un problema strutturale che, come tale, richiede soluzioni organizzative, non solo a livelloaziendalema anche normativo. Perché, conclude Gallagher, “se le pratiche di lavoro stanno portando al burnout, i datori di lavorohanno l’obbligo di riportare indietro i propri dipendenti dall’orlo del baratro”.
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