NelRegno Unitoessere unamadrelavoratrice pesa più oggi che negli anni ‘70. È la cosiddettamotherhood penalty, una condizione dipenalità retributivaper le donne che scelgono di avere figli. Per farla breve, dopo il parto la loro condizione retributiva peggiora e si amplia ildivario retributivocon gli uomini padri a pari grado di istruzione. Secondoil reportWoman in WorkdiPricewaterhouseCoopers(PwC), nel 2021 ilgender pay gapè aumentato di 2,4 punti percentualiarrivando al 14,4% a danno delledonne inglesi.Tanto che, secondo lo studio delTrades Union Congress,le madri di 42 anni guadagnano il 7% in meno rispetto alle donne senza figli. Per i padri, invece, non esiste nessuna “penalità”: al contrario, si stima chegli uomini con figliguadagninoil 21% in piùdei colleghi che non hanno figli (un fenomenoanche statunitense). Così, ildivario retributivotra uomini e donne ha fatto scendere il Regno Unito di ben 5 posizioni rispetto al 2020 nella classifica stilata daPwCtra i Paesi Ocse. 3 anni fa, infatti, gli inglesi erano al 9° posto mentre oggi retrocedono al 14°. Una marcia indietro sul piano dell’uguaglianza di genere che si spiega anche perchéè diminuito il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro ed è cresciuto quello di disoccupazione. Perché aumenta il divario retributivo tra madri e padri? Se il divario retributivo manterrà questi ritmiserviranno più di 50 anni per raggiungere la parità retributiva di genere. Quello delPwCassume i contorni di un vero e proprio allarme sociale che dovrebbe stimolare la sensibilità di aziende e politica: questa, infatti, è chiamata a elaborare misure di contrasto al declino retributivo. Nel suo rapporto,PwCspiega chela motherhood penalty rappresenta “il motore più significativo del divario retributivo di genere”. Ma nel regno Unito questa condizione di “penalità” è stata rafforzata da 2 fattori. In primis, si legge nel rapporto, si assiste a una “crisi di accessibilità dei servizi per l’infanzia”i cui costi – tra il 2015 e il 2022 – sono lievitati mentre diminuivano i salari delle famiglie inglesi. Oggi, infatti, i costi per l’assistenza all’infanzia corrispondono a circa un terzo del reddito medio di una famiglia britannica. E questo non fa altro che spingere le donne a lasciare il proprio lavoro o aridurre le ore lavorative per occuparsi dei figli. È sulle donne, dunque, che continua a gravare illavoro di curaall’interno della famiglia. Il punto, però, è che non si tratta solo di una condizione culturale, ma di una scelta conveniente dal punto di vista economico. Se un uomo guadagna di più di una donna, infatti, è chiaro chesarà lei a porsi il problema di sacrificare il lavoro pur di non dover sopportare i crescenti costi dei servizi dell’infanzia. E per la stessa ragione (i salari maschili sono più alti di quelli femminili), dopo la nascita di un figlioi padri sono più ostili a utilizzare ilcongedo di paternitàper non intaccare eccessivamente le entrate mensili. Secondo il rapporto diPwC,la “scarsa accettazione da parte dei padri del congedo parentale”è il secondo fattore che accentua lamotherhood penalty.“Dobbiamo progettare e sviluppare soluzioni politiche che affrontino attivamente le cause alla base della disuguaglianza che esiste oggi – spiega Larice Stielow, economista diPwC -Se i padri usufruissero di più congedi parentali, ci sarebbero benefici considerevoli e a lungo termine per le donne, le famiglie e la società nel Regno Unito”. La motherhood penalty in Italia Stando ai dati del rapportoWoman in work, i migliori Paesi Ocse – secondo una serie di indici in tema di occupazione femminile – sono Lussemburgo, Nuova Zelanda e Slovenia. Ma nonostante la situazione illustrata,il Regno Unito è al primo tra i Paesi del G7pur collocandosi complessivamente al 14° posto.L’Italia, invece,è alla 30° posizione. A relegarla in basso sono diversi indicatori come il tasso di occupazione e disoccupazione, la presenza di donne all’interno dei consigli di amministrazione e il tasso di partecipazione alla forza lavoro. Ma se si considera solo l’indicatore delgender pay gap, la Penisola non se la cava così male. Rispetto alla media europea del 12,7%,il divario retributivo tra uomini e donne in Italia si attesta al 5%. Un valore ben al di sotto di quello del Regno Unito (14,4%). Secondo ilrapportoEquilibriste: la maternità in Italia nel 2022,realizzato daSave the Children, tanto sul versante occupazionale quanto su quello retributivo “le donne, a differenza degli uomini, scontano ancora un notevole svantaggio quando, nei loro orizzonti di vita prende corpo la maternità”. Parlando di numeri, secondo la recente indagineInapp-Plusdescritta nelRapporto Plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro,il 18% delle donne tra i 18 e 49 anni non lavora più dopo la nascita del primo figlio. Il principale motivo risiede nella difficoltà di conciliare lavoro e cura (52%), seguito dal mancato rinnovo del contratto o dal licenziamento (29%) e da valutazioni di convenienza economica (19%). Rispetto al Regno Unito, tuttavia,l’Italia conta ancora su una rete famigliare di supporto alla genitorialitàche in qualche modo tampona la carenza di asili aziendali e i costi delle strutture private per l’infanzia che, come spiegato, rappresentano un fattore aggravante dellamotherhood penalty.Il 58% delle famiglie ricorre all’aiuto dei nonni, soprattutto nel Mezzogiorno (63%). Quindi anche in Italia, come nel Regno Unito, illavoro di curacontinua a essere prevalentemente nelle mani delle donne. Pensiamo al fatto cheil congedo di paternità è stato introdotto in Italia nel 2013e che solo nel 2022 è stato esteso a 10 giorni lavorativi (nel 2013, infatti, era solo uno il giorno di congedo previsto per i papà). Questo non significa che la misura obbligatoria sia entrata nel “Dna” dei padri lavoratori. L’indagine diFondazione Libellula, infatti, rivela che “il 36% dei padri dichiara di non aver mai utilizzatogli strumenti a disposizione (congedi parentali, permessi) per occuparsi di figli/figlie”. Come se il loro apporto alla cura della famiglia fosse opzionale.
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