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Emergency salpa. Rossella Miccio: «Spero che Gino sorrida»

 

Le parole diGino Stradasono dipinte su una striscia bianca che taglia in orizzontale il corpo color rubino dellaLife Support: “I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”. La nave si è fatta largo nelle acque scure del Porto di Genova martedì 13 dicembre, partendo perla sua prima missione nel Mediterraneo centrale, dovesecondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, dal 2014 a oggi, sono morte o scomparse circa 20.000 persone: una media di 6 al giorno. Solo quest’anno hanno perso la vita in 1.300. Sull’imbarcazione lunga 51,3 metri e larga 12 che presterà soccorso nella rotta migratoria più pericolosa al mondo, anche lostreet artistTv Boyha lasciato il suo segno: due braccia che si afferrano tra le onde, con una scritta che spunta sullo sfondo e dice “Emerge”. Abbiamo parlato con la presidente di Emergency,Rossella Miccio, per capire la genesi del progetto dellaLife Support. Quando è nata l’idea di avere una nave tutta vostra? Più di un anno fa, prima ancora che Gino ci lasciasse. Ma ci è voluto del tempo per trovare quella adatta, riconfigurarla, certificarla, e finalmente riuscire a partire. Ne cercavamo una che fosse solida, che potesse essere accogliente per le persone salvate, che ci permettesse anche di contenere il più possibile i costi: tenere una nave in mare è un impegno economico significativo. Abbiamo cercato in giro per il mondo delle navi che rispondessero a questi criteri, e l’abbiamo trovata circa un anno fa in Norvegia, dove veniva usata per vari scopi, come supportare le piattaforme petrolifere, fare trasferimenti di personale ed equipaggi dalle navi alle piattaforme. Ma soprattutto, aveva degli spazi adeguati che, una volta riconfigurati, avrebbero garantito un’accoglienza dignitosa alle persone che avremmo soccorso in mare. Ha due ponti, uno scoperto e uno coperto, quindi anche in situazioni di meteo non favorevoli la nave è certificata per accogliere fino a 175 naufraghi, ma può ospitarne anche di più. Fermo restando che si tratta pur sempre di una nave, un posto dove le persone dovrebbero stare il meno possibile. Perchéavete scelto questo periodo per salpare? In realtà non è stata una scelta, speravamo di riuscire a partire prima visto che il bisogno nel mare c’è e non accenna a diminuire. Ma tra i lavori di riclassificazione, e tutte le dotazioni aggiuntive per l’assetto disearch and rescue,le varie verifiche e certificazioni necessarie, siamo riusciti a essere pronti soltanto adesso. Spero che arriveremo in zona Sar entro un giorno o due, e credo che qualche altra nave della flotta civile partirà nei prossimi giorni: ora non ce ne sono moltissime. Salvare quante più persone possibile: è il motivo per cui siamo in mare. Gli Staticontinuano a negarenei fatti quella che è una loro responsabilità, perché dovrebbero essere loro a garantire il soccorso in mare. L’attività delle navi Ong è semplicemente suppletiva, perché non possiamo tollerare che chi scappa già da guerre, torture, abusi e violenze poi venga lasciato annegare nel Mediterraneo. Quanto Gino Strada c’è in questo progetto? Tantissimo, in tutto quello che facciamo. Abbiamo avuto il grande privilegio di avere un fondatore estremamente concreto, la cui azione era coerente con il pensiero, e così è stata impostata l’organizzazione Emergency. Io ho avuto la fortuna di lavorarci a strettissimo contatto per più di vent’anni. Le sue parole stampate sulla fiancata della nave in italiano e in inglese, affinché siano comprensibile anche a chi non parla la nostra lingua, spiegano il motivo per cui abbiamo intrapreso questa missione: perché riconosciamo a persone uguali a noi eguali dignità e diritti. Ed è questo il segno più evidente della grande presenza di Gino in questo progetto. Emergency aveva già operato in mare? Sì, abbiamo lavorato con i nostri team sanitari e i nostri mediatori culturali prima con ilMoas, un’altra Ong, nel 2016, e poi dal 2019 a marzo di quest’anno con l’Ong spagnolaOpen Arms. Non siamo nuovi alle attività in mare. Abbiamo però deciso che fosse giusto assumerci in toto la responsabilità di questa attività, con una nave totalmente nostra. In che zona si concentreranno gli interventi? In quella che viene definita la zona del Mediterraneo centrale, quindi tendenzialmente acque internazionali tra l’Italia, la Libia, Malta. Poi, in base alle indicazioni che riceveremo di eventuali barche indistress, ci sposteremo cercando di soccorrere quante più persone possibile. La durata dipenderà sia da quante barche in difficoltà incontreremo e in quanto tempo, sia da quanto passerà prima che, una volta raggiunta la capienza, ci venga accordato un porto sicuro. Noi continueremo a ribadire che stiamo in mare solamente per supplire a un dovere non solo dell’Italia, ma dell’Europa intera, e a chiedere che vengano istituite delle vie legali per le persone che hanno bisogno di lasciare i loro Paesi d’origine. Sugli sbarchi selettivi del mese scorso a Catania, io credo che siano un abominio dal punto di vista giuridico, medico ed etico: spero che sia stato un episodio unico che non si ripeterà più. Ultimamente si parla molto dei Paesi di bandiera delle navi, anche se sappiamo che questo non definisce le responsabilità sui migranti. La vostra, per esempio, batte bandiera panamense. L’iter prevede che si possa fare richiesta a un Paese, che può accettare o meno. Avremmo voluto chiedere la bandiera italiana, ma i requisiti di stabilità per la richiesta della notazione di ricerca e soccorso sono abbastanza estremi: onde evitare che la nave sia certificata per un numero molto limitato di persone, abbiamo cercato tra le bandiere non italiane quelle che avessero uno status di sicurezza alto e Panama è tra le prime dieci al mondo, è una classe A. Quindi abbiamo fatto richiesta e Panama ha accettato e ha supportato l’iniziativa. A oggi non ci sono altre Ong che battono bandiera panamense. La nave è stata acquistata e allestita grazie alle donazioni raccolte dall’associazione? Abbiamo usato i fondi raccolti da Emergency per tutti i suoi progetti. C’è stata qualche donazione per la nave, nello specifico, ma la maggior parte dei fondi destinati a un progetto arriva quando quel progetto parte. La nave in sé è costata 1 milione e mezzo, ma considerando il costo per allestirla e rinnovarne la classe, l’avvio del progetto ha richiesto l’investimento di circa 3 milioni e mezzo. Per non parlare dei costi delle missioni: dipendono molto dal carburante, per esempio, e dalle fluttuazioni di questi ultimi mesi, però diciamo che la nave in attività costa intorno ai 300.000 euro al mese. Un equipaggio di 28 persone. C’è unacrewtecnica composta da 9 persone che fondamentalmente serve per far funzionare la nave. Poi c’è tutto il personale per la ricerca e il soccorso, quindi chi guida il gommone e chi ha il brevetto di immersione, che sono coloro che possono salvare fisicamente le persone. Poi c’è il team di accoglienza socio sanitaria, composto da 1 medico, 2 infermieri e 2 mediatori culturali, oltre al team logistico, che cura gli aspetti di gestione organizzativa della nave, e un referente per la comunicazione. Alcuni sono nuovi, perché è la prima volta che facciamo questo tipo di missione, altri sono colleghi e colleghe che già collaboravano con Emergency per altri progetti sia in Italia che all’estero. Abbiamo messo un annuncio sul sito e abbiamo sparso la voce. La risposta è stata grandiosa: segno che tra le persone comuni c’è tanta sensibilità, voglia di contribuire e di dare una mano. Ora che anche Emergency si è unita al soccorso in mare con una propria nave, così come fece ResQ nell’agosto del 2021, l’eredità di Gino Strada si propaga anche via mare. Crede che sarebbe fiero della vostra missione? Io lo spero: Gino ci teneva veramente tanto che Emergency avesse una propria nave in mare, perché si rendeva conto di quanto urgente fosse l’impegno a 360° rispetto a questo tema. I valori fondanti del nostro Paese, ma anche dell’Unione europea, sono quelli del rispetto dei diritti e della salvaguardia della vita umana, quindi mi auguro che ovunque sia, guardando laLife Support, sorrida. Pensa che lo scandalo “Qatargate” che ha travoltoAntonio Panzeri, fondatore diFight Impunity, possa screditare le Ong e il loro operato? Purtroppo sta già accadendo: se leggo i titoli di tanti giornali si parla di Ong in maniera indiscriminata, credo anche intenzionalmente. Credo che chiunque commetta un reato debba rispondere di ciò che ha commesso, però non bisogna strumentalizzare questa vicenda. Così come è sbagliato delegittimare in toto il Parlamento europeo perché ci sono degli europarlamentari sotto inchiesta, credo che non si debba nemmeno delegittimare né le Ong né nessun’altra realtà se non quelle specifiche coinvolte nella vicenda.

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