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Pinkwashing: se anche il marketing è violenza

 

Il25 novembreè una – fondamentale – giornata di denuncia, riflessione, commemorazione. Quello che non è, e non deve essere, è un’occasione per le aziende difarsi belle a suon di post-posticcicontro la violenza sulle donne che stridono in maniera quasi dolorosa con una sostanziale indifferenza al tema per i restanti 364 giorni dell’anno, con unacultura portatrice di quei valori tossiciche sono il terreno di coltura della violenza di genere. Eppure, ilpinkwashingè ancora un tratto distintivo della comunicazione di moltissimi brand. Un tratto che, seppur visibile anche in altri periodi dell’anno – soprattutto in prossimità di ricorrenze come l’8 marzo e delle giornate legate alle patologie prevalentemente femminili come ilcancro al seno– prevedibilmente si intensifica anche in vista di una ricorrenza nata, ricordiamolo, perché la violenza maschile contro le donne è una piaga che solo negli ultimi 11 mesi ècostata la vita a 52 donne (più di una a settimana)e la serenità, la libertà e il benessere a migliaia di altre. Non solo le aziendenon sannoraccontare la violenza sulle donne, ma non riescono proprio a trattenersi dal farlo, anche se hanno ignorato le questioni di genere dal 26 novembre dell’anno precedente. Nella maggior parte dei casi se lo fanno, l’obiettivo non è quello di promuovere una sacrosanta campagna di informazione, ma riempire un casella del piano editoriale (perché “non si può non parlarne”) e rubare spazio e voce in quella che altro non è che unastrategia di marketing(si parla, in questo caso, anchefemvertisingediversity marketing) che punta ad arrivare all’obiettivovendendo la sensibilità dell’azienda come qualsiasi altra caratteristicadi un prodotto. Con la differenza che questi “valori” tanto esaltati, nella pratica sono molto meno radicati nella cultura e nelle pratiche aziendali di quanto gli specialisti dell’advertising vorrebbero mostrare. Questo è vero per la violenza di genere ma, più in generale, permoltissime tematiche che ruotano attorno all’universo femminile, di cui le aziende si appropriano per trasformarle in asset aziendali. Pensiamo al colosso del fast fashionH&M, entusiasta portavoce dell’empowermentfemminile, dell’inclusione e del body positive e al contempoaccusato di sfruttare lavoratrici e lavoratori sottopagatinelle fabbriche di Bulgaria, Turchia, India e Cambogia, oltre che produttore di un’insostenibile quantità di capi di abbigliamentorapidamente destinati a essere superati. O del marchio di abbigliamento svedese che ha prodotto e realizzato una serie di magliette con la scrittaWe Should All Be Feminists(“Tutti dovremmo essere femministi”), letteralmente cucite da dipendenti che lavorano in Asia incondizioni di sfruttamento. Senza dimenticare i casi più celebri dipinkwashing(da cui il termine stesso ha avuto origine): quelli delle aziende che hanno promosso iniziative benefiche legate allalotta contro il cancro al senoattraverso la promozione di prodotti (è il caso dei parabeni nei cosmeticiAvon, del pollo fritto diKFCo dell’alcool della campagnaPink Your Drink), in diretto contrasto con uno stile di vita suggerito da specialisti ed esperti di oncologia. Individuare i brand che cercano di ripulirsi la coscienza ammantandola sotto un velo rosa non è facile, soprattutto perchévorremmo credere nella buonafededi chi si dimostra attentǝ alle tematiche che ci stanno a cuore. Non è facile, ma è importantissimo perché ciascuno si assuma la responsabilità del proprio ruolo nelmantenimento di un sistema di potere e culturaleche di quella violenza è all’origine. Ecco perché le iniziative capaci di smascherare ilpinkwashingsono sempre più necessarie. Twitter, lo sappiamo, non naviga in buone acque e non solo il suo Ceo è emanazione proprio di quellacultura maschilista e patriarcaleche facciamo fatica ad abbattere, ma la sua politica difree speechha permesso a moltissime pagine misogine ditrovare nuova forza(come se ne avessero davvero bisogno). Eppure –finché durerà– può essere non solo uno strumento attraverso cui le aziende possono farsi rosa sfruttando la benevola ignoranza della maggior parte degli utenti, ma anche uno strumento di azione perdenunciare queste manipolazioni. È il caso, a esempio, del profiloGender Pay Gap Bot,aperto nel marzo 2021, che nei suoi oltre 6500 tweet sfrutta i dati messi a disposizione dalgoverno del Regno Unitoper mostrare l’ipocrisia delle aziende che postano contenuti DIE (Diversity & Inclusion), ritwittandoli e aggiungendo come caption “In this organisation, women’s median hourly pay is X% lower than men’s”. Un modo semplice, eppure efficacissimo, di mostrare la distanza tra le parole e i proclami e le azioni che vengono prese all’interno della stessa azienda che vorrebbe farsi promotrice di un modello virtuoso di uguaglianza ed equità.

Redazione

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