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Fenomenologia della colpa fino a prova contraria

 

In Italia, nonostante esista il giuridico vincolo dellapresunzione di innocenza, si è spesso colpevoli fino a prova contraria. O almeno a esserlo sono i gruppi oppressi, mentre chi maggiormente beneficia del sistema delle iniquità gode a pieno titolo di una candida innocenza, anche quando provato colpevole. La colpa è un sentimento dominante nel nostro Paese, mentre la sua attribuzione è diventata elemento di intrattenimento tanto quanto di espulsione. I nuovi giudici sono i singoli individui investiti di potere, sia esso mediato o istituzionale, le cui convinzioni – più spesso motivazioni – sono più forti di qualsiasi norma giuridica o dovere morale. Ilnuovo Governotenta di tenere chiusi i porti, giustificando l’atto come una protezione e difesa da danni eventuali. Un principio di ripristino della legalità che trova la sua matrice nellacostruzione della migrazione come crimine. Se lamigrazione è narrata come criminalità, allora si può sostenere una legalità da difendere. Che il processo di criminalizzazione sia poi un elemento di accrescimento del pericolo per i migranti, che innesca quello che Ambrosini definisce circolo vizioso del contrasto ai viaggi in mare, poco importa, i costrutti sociali piacciono troppo al potere dominante. La difesa, come idea, prevede un gruppo da difendere, inutile specificare che in questo caso si tratti degli italiani bianchi e cattolici, e di un elemento o un gruppo di aggressione, imigranti. Attorno a questo termine, che racchiude una collettività così complessa che ridurre a un nome risulta impreciso, ruotano delle attribuzioni a cui il governo attinge per giustificare il respingimento. L’espulsione, con annessaviolazione del diritto umano alla vita, di quello alla migrazione, alla salute e più in generale all’autodeterminazione, viene motivata da un’attribuzione di colpa per cui i migranti sono considerati pericolosi. La sentenza vede giudici, codice legislativo e avvocati sommarsi in un’unica dimensione, sostenuta da una convinzione estremamente personale. Il diverso,la persona migrante razializzata, si ritrova investito della capacità di recar danno prima ancora di aver scorto il territorio in cui si presume avverrà tale danno. La sua intenzione di compierlo è constatata senza che vi siano prove o indicatori di tale intento e, anzi, si tratta di una previsione così slegata dalla realtà fattiva da giustificare una prevenzione assoluta, sensazionalistica. I migranti sono dichiarati colpevolisenza possibilità didifesa, condannati amorire in mare o torturati nei campi di detenzione libici. I capi d’accusa, i più disparati: violenza di genere, atti criminali e attacchi alla cultura del Paese. Di base, azioni che ancora non sono state compiute sembrano essere sufficienti a condannare interi tranci di umanità. Perché l’accusa, naturalmente, non è estesa solo a chi valica il tratto di mare sperando di trovare vita – la sua vita – dall’altra parte, ma si dirama verso tutte le persone che condividono caratteristiche e proveniente con chi migra via mediterraneo. Sulcimitero d’acquaviaggiano persone in fuga dalla violenza di genere, dalla povertà, dalla crisi climatica, dall’assenza di lavoro, dalle persecuzioni, dalla guerra, dalla povertà e della violenza generate dal passato coloniale, dal consenso di Washington e dal land grabbing (fenomeno per cui una porzione di terra considerata inutilizzata è venduta a terzi senza il consenso delle comunità che ci abitano) tutti eventi e realtà causate da ben altri colpevoli: i pezzi da 90 del potereoccidentale, ovvero gli Stati e i proprietari più ricchi del pianeta. Ed ecco che la colpa si trasla sulla vittima, sulle vittime, in un carosello argomentativo che attribuisce a chi ancora non lo abita le storture dell’ambiente italiano. L’autodeterminazione dei potenti passa per lanegazione dell’altro, per la costruzione della sua identità mostruosa come antitesi esistenziale e concettuale a quella di chi, armato di voce, sta stabilendo i tratti da esorcizzare. Così, nella distruzione dell’altro si crea l’identità del sé. Se un popolo intero si realizza così, nellademonizzazione altrui come invenzione della propria virtù, si costituisce con un’identità negativa e devastante, che desertifica e limita, invece di coltivare e ampliare. Byung-Chul Hanspecifica nella sua analisi del potere che il violento riconosce sé stesso (identità e potere) attraverso unaviolenza, quindi la negazione dell’altro. Dire che l’altro è maligno per esser pensato buono è estremamente semplice, molto più che rintracciare un reale percorso morale, una bontà concreta. La colpa, infatti, deve solo essere appiccicata perché tutti vi credano.Lo stigma di una lettera scarlatta brilla, anche in sua assenza. L’attribuzione arbitraria della colpa è profondamente intessuta nella cultura dominante italiana. Mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa, la litania di sottofondo. Un catechismo della colpa che non conosce limiti e ci fa amare l’errore altrui, presunto o reale che sia, al punto da pagare per goderne. Ed è il caso di quelle trasmissioni tv che senza rispettare i canoni di dignità abusano dell’accusa.Le persone rimangono incollate allo schermo per giudicareo assolvere, perse nella scarica di piacere derivata dal sentirsi dalla parte giusta e nella posizione di decidere, tra una pubblicità e l’altra, chi ha fatto cosa e, soprattutto, cosa merita. Si arriva quindi alla sentenza, sempre legittimamente lontana da quella dei tribunali e, anzi, proprio per questo più sentita. Le sentenze popolari sono violentee rispecchiano gli ordinamenti di discriminazione gerarchici per cui una persona nera è uno stupratore più stupratore di una persona bianca, per cui una donna in minigonna se la cerca un po’ di più di una in pantaloni lunghi, per cui il carcere è una passeggiata e «a questi servirebbe una vera lezione».Giustizieri armati di telecomando, gli italiani sono addestrati a odiarsi. L’occhio della colpa altrui è la nostra prontezza nel determinarla. E, nelle parole della filosofa Hannah Arendt non è «una sfortuna che trasforma in un volontario strumento di violenza e sterminio, bensì un’educazione a cui conseguono scelte attive». Scelte che, sempre citando la filosofa tedesca, riflettono l’appoggio a una politica. Attivo. Perciò, quando si realizza l’illegittimità di un’azione ostile – come ilrespingimento di un gruppo di personeche cerca di aver salva la vita – il popolo si divide e schiera pronto a votare per l’allontanamento o no. Chi resterà nella casa? In pochi, rimangono in pochi. E con questa colpa grandissima di essere diversi, poveri, razializzati, non uomini, non eterosessuali, portando appuntata sul petto l’identità dell’ abitante di periferia, lo stigma di una gioventù povera culminata con il carcere, l’onta di nipote di persone giunte dalla Somalia – non considerato somalo e nemmeno italiano – finiremo con il fuggire tutti. E resterà unPaese di incanutiti penitenti, di colpevoli mai accusati, perché le aule sono loro e pure le sentenze arbitrarie, di ricchi che non avranno più a chi delegare la cura e l’assistenza, la coltivazione, la manutenzione e la costruzione del loro spazio di vita. Rimarranno soli, senza più nessuno a cui dare la colpa per ciò che loro e la loro cultura della violenza fanno ogni giorno a chi abita e a chi giunge in questo paese. O forse, si ritroveranno soli, mentre tutto intorno la vera identità del paese si dilaterà e aprirà, sempre più, mentre i colpevoli fino a prova contraria – troppo spesso considerati colpevoli anche dopo – cambieranno anche la cultura della colpa. La colpa di migrare, di essere considerati un numero su una barca e non esseri umani non è esattamente una colpa reale, piuttosto la proiezione di chi desidera condonare la morte fintanto che riguarda altri, avvolgendosi in un manto giudiziario e giudicante.

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