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Oceani più caldi significa specie marine a rischio

 

Che ilcambiamento climaticostia avendo unimpatto profondo sugli ecosistemi marininon è (purtroppo) una novità. Ora, però, unostudiorivela quanto quell’impatto potrebbe essere drammatico, per la biodiversità deglioceanima anche per la vita sulla terraferma. Secondo i ricercatori delBedfordInstitute of Oceanography e della Dalhouse University, infatti,se le temperature degli oceani si alzeranno di 3-5° entro il 2100, a essere a rischio potrebbe essere il 90% delle specie marine. Lo studioA climate risk index for marine life,pubblicato suNature, ha elaborato un vero e proprioindice di rischio climatico(Climate risk index),capace di indicare per ognuna delle 25.000 specie analizzate– che vanno dal microscopico plancton ai grandi predatori e alle balene, in tutti gli ecosistemi marini dai tropici ai poli –l’impatto del surriscaldamento globale. I ricercatori spiegano che, «proprio come una pagella valuta gli studenti su materie come matematica e scienze, abbiamo valutato ciascuna speciein base a 12 fattori di rischioclimatico specifici», che sonolegati alle caratteristicheinnate di una specie – a esempio, le dimensioni del corpo e la tolleranza alla temperatura – e al contempoalle condizioni oceanichepassate, presenti e future in tutti i luoghi in cui si trovano. La scala di rischio «varia datrascurabile(più bassa) acritica(più alta) e rappresenta sia lagravità degli impatti climatici dannosisulle specie sia la loroprobabilità che si verifichino».Nello scenario peggiore, solo una specie su 9 non sarebbe a rischio alto. La situazione sarebbe particolarmentecritica per i grandi predatoricome squali e tonni, negli ecosistemi subtropicali e tropicali che tendono a essere più caldi e negli ecosistemi costieri, quelli che supportano il 96% del pescato mondiale, con gravi effetti a catena per le persone che dipendono maggiormente dall’oceano. In questo scenario,i rischi per specie come il merluzzo e le aragoste erano sensibilmente maggiori nei territori delle nazioni a basso reddito, dove le persone dipendono maggiormente dallapescaper soddisfare i propri bisogni nutrizionali: questo, ha ricordatoDaniel G. Boyce, uno dei ricercatori autore dello studio suThe Conversation, rappresenta «un altro esempio didisuguaglianza climaticain cui i Paesi a basso reddito, che hanno contribuito in misura minore al cambiamento climatico e stanno riducendo in modo più aggressivo le proprie emissioni, stanno subendo i peggiori impatti pur avendo la minore capacità di adattarsi a essi». Questo futuro, però, non è inevitabile:lo studionon analizza un unico scenario socioeconomico, masi concentra su due futuri possibili, in cui a fare la differenza è la quantità diemissioni di gasserraprodotti dalla società.In uno scenario a basse emissioni– in cui la temperatura media degli oceani aumenterà di uno o due gradi Celsius entro il 2100, secondo il limite di riscaldamento globale di due gradi Celsius stabilito dall’Accordo di Parigi –il rischio climatico è enormemente ridotto per quasi tutta la vita marina, con una riduzione addirittura del 98,2%. Il rischio sproporzionato per la struttura dell’ecosistema, la biodiversità, la pesca e le nazioni a basso reddito sarebbe quindi enormemente ridimensionato. «Il nostro studio sottolinea che siamo a un bivio critico e che la scelta di un percorso più sostenibile che dia la priorità alla mitigazione del clima porterà a chiari benefici per la vita oceanica e le persone», ha conclusoBoyce. Cosa significa questo? In poche parole, chedobbiamo agire– non solo come individui ma, piuttosto, a livello sistemico – per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, cercando almeno di rimanere entro i limiti individuati nel 2015. Secondo le stime,siamo già molto, molto in ritardo. Ma il tempo, ormai, inizia a scarseggiare.

Redazione

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