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Blonde, non il solito biopic

 

La bionda d’America. L’iconica figura della star di Hollywood dall’aria innocente, con i boccoli acconciati da un lato, colta all’improvviso dal vento che le solleva il seducente vestito bianco. La prima scena diBlonde, presentato alFestival di Veneziae disponibile ora suNetflix, ci restituisceMarilyn Monroe- interpretata da una languidaAna de Armas, che ne rievoca il fascino, ma anche la vulnerabilità attraverso movenze e timbro di voce – per come la maggior parte di noi la conosce. Un preambolo destinato a subire un tragico rovesciamento nel resto dellapellicola di Andrew Dominik: quasi 3 ore di film, girate alternando il colore al bianco e nero e l’inquadratura in 4:3 a quella in 16:9. Dopo aver portato al cinema la vita del criminale Mark Brandon Read inChopper, la storia dei due leggendari banditi inL’assassinio di Jesse Jamesper mano del codardo Robert Forde aver realizzato bendue documentari sul cantante Nick Cave, il regista rivoluziona l’impianto stilistico delbiopic. Il lungometraggio, definito da alcuni pretenzioso, ma che sicuramente offre unritratto inedito di una delle celebrità più famose della Storia, è ispirato all’omonimoromanzo scritto da Joyce Carol Oates. Romanzo, non biografia. Occorre partire da una premessa di fondo, infatti: il film, in una serie dibalzi temporali,dà per presupposta la conoscenza da parte dello spettatore della vita della diva, degli eventi e delle persone che ne segnarono in un senso o nell’altro il corso, e racconta un processo dideflagrazione umana e decostruzione del mito di Marilyn Monroe. L’elemento cardine su cui si sviluppa l’intera trama è l’inconciliabile dualismo tra Marilyn, l’attrice idolatrata e desiderata da tutti, eNorma Jean, una ragazza turbata dai disturbi psichici della madre – strazianti le digressioni sulla sua infanzia – ferita dagli uomini, primo fra tutti il padre, figura idealizzata e cercata ossessivamente per anni. Marilyn e Norma sono due linee rette che non si incontrano mai, o quasi, in un film che racconta innanzitutto dellaperdita di sée della propriaidentità, ma anche del desiderio, a volte disperato e implacabile, di essere amati. Il titolo stesso contiene in sé una crudezza disarmante:Blonde,“bionda”, un’etichetta, un aggettivo applicato a un fantoccio, a una persona ridotta a personaggio e consacrata – o relegata – a ruolo di icona. Le musiche composte proprio daNick Cave e Warren Ellishanno il potere di sprigionareun’atmosfera onirica, mentre le scene assumono pian piano la consistenza divisioni,sogni, sempre più spesso diincubi. In special modo grazie aChayse Irvinche mette a punto unafotografia ambivalente,che da una parteriproduce fedelmente pose, scatti e ambientazioniper ricreare l’immagine fulgida di una diva d’altri tempi e al contempo disvela, in un crescendo di angoscia, le ombre, i demoni, e infine la follia e la profonda infelicità di una donna come tante. Ciò che ne risulta è unfilm denso, dolorosopersino per gli occhi, ma che di certo resterà impresso nella memoria collettiva, tra le pellicole più vivide sulla vita di Marilyn Monroe.

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