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Il cereale che resiste ai cambiamenti climatici

 

Trigidia Jiménez è sempre stata profondamente legata alla terra e alla campagna. È cresciuta in un campo di patate a Mina San José a Oruro, in Bolivia, e ha ereditato l’amore e la dedizione per l’agricoltura dal padre. L’ingegnera agrariaha raccontato la sua storia al quotidiano El Pais: le difficoltà nell’affrontare ipregiudizie ilmaschilismo dell’ambiente rurale, ma anche i traguardi raggiunti e i riconoscimenti ottenuti. Proprio alcuni mesi fa, l’Istituto Interamericano per la Cooperazione in Agricoltura(IICA) l’ha definita una“Leader of Rurality”. Negli ultimi anni Jimenéz si è conquistata uno spazio e un ruolo indiscusso nella produzione della cañahua. Parente stretta della quinoa, la cañahua è considerata unacoltura intelligente,un cereale in grado di resistere a condizioni meteorologiche estremee praticamente opposte, dallasiccitàalleinondazioni: si tratta di una pianta della famiglia dellechenipodiaceae, che cresce in molte zone dellaBoliviae delPerù, anche sulle pendici e sulle cime delle montagne, a temperature piuttosto rigide. La sua straordinaria resilienza ecapacità di adattamento rispetto ai cambiamenti climaticila rendono un portento della natura e un potenzialesuperfood del futuro. Oltre al notevoleapporto nutrizionale, che consente di annoverarlo fra gli alimenti più adatti a una dieta vegetariana o vegana, sembra apportare anche una serie di benefici nell’equilibrio gastrointerico e nei livelli del colesterolo. Pur contenendo pochissimi grassi, è un cibo molto energetico: si stimano circa340 calorie per 100 grammi di prodotto. Jiménez ha fondato la sua azienda agricola, laGranja Samiri, nel comune di Toledo, nel sud-ovest della Bolivia. Le condizioni agroecologiche di questa località secondo lei sono particolarmente avverse, a causa del freddo, del peso delle zolle e delle violente raffiche di vento. «In futuro, il cambiamento climatico si aggraverà, portando probabilmente a una drasticariduzione delle precipitazioni. Le specie vegetali dotate di una grande capacità di adattamento di fronte a cambiamenti improvvisi potranno nutrirci in futuro», ha spiegato Jiménez ad América Futura. La scienziata ha deciso infatti di recuperare leantiche tecniche di coltivazione della cañahua, sperimentate per la prima volta dagli indigeni nell’era preispanica e poi abbandonate dalla colonizzazione in poi, affinandole con le conoscenze scientifiche e tecnologiche dei nostri giorni: inizialmente la produzione occupava solo mezzo ettaro di terra, sufficiente per il consumo annuale di una famiglia. Nel giro di 20 anni, il raccolto ha trovato la sua fetta di mercato nelsussidio per l’allattamento ricevuto dalle madri in Bolivia, grazie alle 1.500 famiglie che si occupano di produrre il grano in 2.000 ettari. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, circa l’equivalente di2.800 campi da calcio regolamentari. Un lavoro lento e costante, durato decenni. La prima volta che si è ritrovata in mano un seme di cañahua, racconta al quotidiano spagnolo, ha sentito una sorta di connessione immediata: «È un po’ complicato da spiegare, è come se avessi ricevuto una scarica elettrica». Insomma, amore a prima vista.

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