Altro che inglese, la vera lingua franca è il “parentese”. A sostenerlo è unaricercapubblicata suNature Human Behaviour, la più ampia nel suo genere, condotta da oltre 40 scienziati che hanno raccolto e analizzato più di 1.600 registrazioni vocali prodotte in 18 lingue da 410genitoridi comunità diverse sparse in tutto il mondo. Ma qual è la definizione esatta di “parentese”? Si tratta di un neologismo derivato dalla parola ingleseparent, “genitore”, e indica illinguaggio semplificato utilizzato dagli adulti per rivolgersi ai bambiniin tenera età. In italiano il “genitorese” viene indicato talvolta come “linguaggio bambinesco”, “maternese” o “madrese”, e ancora con l’espressione diffusababy-talk. Dal punto di vista linguistico, il “parentese” è caratterizzato da tratti che comprendonoiperarticolazionedelle vocali, riduzione dei nessi vocalici e consonantici, omissione di elementi grammaticali,volume altodella voce e particolareenfasisulla curva di intonazione. «Quando interagiscono con i bambini, gli esseri umani spessoalterano il loro modo di parlaree cantare in modi pensati per supportare la comunicazione», spiega lo studio realizzato nell’arco di tre anni. Queste alterazioni, secondo la ricerca, sembrano essere simili in tutte le persone, in quello che potremmo definire una sorta diesperanto dei genitori. «Ovunque tu vada nel mondo, dove le persone parlano con i bambini, senti questi suoni», ha dichiarato lo scienziato cognitivo Greg Bryant dell’Università della California. Lo studio ha inoltre riscontrato come il baby-talk presenti11 caratteristicheacustiche che lo distinguono dai discorsi e dalle canzoni degli adulti. Per verificare se questi sono consapevoli delle differenze, i ricercatori hanno promosso un gioco intitolato “Who’s Listening?” (“Chi sta ascoltando?”) rivolto a oltre 51.000 persone di 187 Paesi rappresentative di 199 lingue. I risultati hanno mostrato come, sottoposti a diverse registrazioni di una canzone tipicamente rivolta ai bambini (The wheels on the bus) e di una seconda tipicamente rivolta agli adulti (Hallelujah), la maggioranza dei partecipanti abbia identificato in modo rapido l’orientamento infantile. «Il nostro studio fornisce la prova finora più efficace per verificare se ci sonoregolarità acustichenelle vocalizzazioni dirette ai bambini in tutte le culture», ha affermato Courtney Hilton, borsista presso il Dipartimento di psicologia dell’Università di Harvard e coautrice dell’articolo. Queste caratteristiche vocali, ha aggiunto Hilton, «offrono un indizio davvero allettante per collegare le pratiche di cura deibambinicon gli aspetti distintivi della nostrapsicologiaumana in relazione alla musica e allasocialità». Lo studio sembra corroborare ricerche precedenti in merito all’effetto calmantesui più piccoli di ninne nanne e schemi di linguaggio alterato, mentre secondo altre analisi il “parentese” favorirebbe l’apprendimentodelle parole. Tuttavia le sue funzionalità sono ancora oggetto di indagine, e gli studiosi invitano anon universalizzarei risultati ottenuti. «Ci sono culture in cui gli adulti non parlano così spesso con i bambini e altre in cui lo fanno molto», ha spiegato al New York Times Casey Lew-Williams, psicologo e direttore del Baby Lab della Princeton University. «Non stiamo cercando di affermare che tutte le società hanno canti o discorsi diretti dai bambini», ha concluso il coautore della ricerca Cody J. Mose, «ma ora sappiamo che quando le persone tendono a cantare o a parlare ai loro bambini, tendono a farlo nello stesso modo».
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