Siamo un Paese di santi e marinai. Con 7.914 chilometri di coste, di cui più di un terzo nella sola Sicilia e Sardegna, il mare è un elemento caratterizzante della vita per tante italiane e italiani. Anche i montanari più convinti non disdegnano le acque cristalline della Sardegna o le vivaci spiagge della Puglia. Si giura e spergiura di amare ilmare nostrum,culla di civiltà. E tanti lo fanno fattualmente, come i volontari delWwf, diLegambiente, diWorldRisee tante altre organizzazioni che si occupano di ripulire litorali, tutelare la biodiversità marina, combattere le ecomafie che per anni hanno usato il mare come una discarica dove abbandonare rifiuti tossici impunemente (le infami “navi a perdere” affondate con il loro carico di rifiuti tossici e radioattivi, mai recuperate sui fondali calabresi). Una delle buone notizie è la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dellaLegge Salvamare, ovvero la norma “Disposizioni per il recupero dei rifiuti in mare e nelle acque interne e per la promozione dell’economia circolare”, presentata, nel 2018, dall’allora ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Oggi tutti i pescatori che recuperano rifiuti, in mare o nelle acque interne (laghi e fiumi), possono conferirli in porto, dove le autorità portuali devono riceverli in apposite isole ecologiche e avviarli al riciclo. Spetta ai comuni territorialmente competenti per la gestione dei rifiuti urbani allestirearee in prossimità degli ormeggi, qualora l’ormeggio sia al di fuori delle aree di competenza dell’Autorità di Sistema Portuale. D’altronde è anche una delle poche iniziative veramente valide da annoverare. Purtroppo rimangono ancoranumerose sfide da affrontarein maniera sistematica, oltre la gestione dei rifiuti marittimi, per tutelare questo importante ecosistema, da cui dipende pesca, turismo e molti altri settori. Tra le sfide più significative che il Mediterraneo deve affrontare vi sono l’erosione costiera, l’innalzamento del livello del mare, ilriscaldamentoe l’acidificazione delle acque, lo sfruttamento intensivo degli stock ittici, la conservazione dellabiodiversitàmarina. Ma se il Presidente Macron ha lanciato personalmente laStratégie nationale des aires protégéesche punta a proteggere il 30% del territorio marino e terrestre entro la fine 2022, in Italia il Mite sembra essere sempre più interessato alla questione energetica eignorare le questioni ambientali dei mari italiani. Nemmeno un sussulto sul tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici per le aree costiere e le isole da parte del dicastero guidato da Roberto Cingolani. Né le ondate di calore record, né la siccità record, né la tragedia dellaMarmoladahanno spinto ad annunciare l’approvazione delPiano di Adattamentoe il rafforzamento degli uffici preposti. Lo strumento c’è, però è in stallo dal 2018, dopo che nel 2015 l’Italia aveva approvato laStrategia di adattamento ai cambiamenti climatici. Non sono nemmeno serviti i cori indignati di climatologi, mondo delle assicurazioni, ecologisti per attrarre l’attenzione del ministro. Sul tema tutela della biodiversità si è ben lontani dall’obiettivo “30%” delle aree protette entro il 2030, che sarà definitivamente approvato dallaConferenza delle Parti sulla biodiversità, a dicembre a Montreal. Non ci sono piani concreti, men che meno gli strumenti di pattugliamento e tutela delle aree esistenti. Durante un lavoro di reportage in Sardegna è emerso più volte l’impossibilità, specie a luglio e agosto, degli enti parco di monitorare i comportamenti del nugolo di imbarcazioni private che ancorano in aree protette, scaricano rifiuti o pescano illegalmente in aree non consentite o con mezzi non consentiti. Non basta perimetrare e mappare le aree. Serve una tutela attiva, visto che questo è fenomeno comune in tante aree del paese, dove andrebbe promossa una migliore educazione al rispetto delle aree protette. Dentro il Ministero della Transizione Ecologica sono mesi che serpeggia il mal di pancia su queste tematiche, centrali per la tutela delle coste italiane. Pesa la riorganizzazione con vari uffici depotenziati, in particolare quelli del mare, clima e biodiversità (basti pensare che non esiste una DG preposta per clima e adattamento) e l’insufficienza di personale dedicato per un ministero destinato, per importanza e peso, a essere uno dei più pesanti nel prossimo governo. Non serve essere giornalisti investigativi per raccogliere il malcontento nei confronti del Ministro da parte dei suoi stessi dipendenti e collaboratori. Viene dato poco spazio a queste tematiche e regna la disorganizzazione. Si può anche spezzare una lancia a favore del ministro data la complessa congiuntura economico-energetica, che indubbiamente sottrae una quantità di tempo rilevante e grattacapi come il Superbonus. Ma questo non giustificaaver ridotto a questione secondaria la tutela di coste e mari. Dopo la grande attenzione al tema del suo predecessore, Sergio Costa, Cingolani non ha nemmeno spinto per usare i fondi del Pnrr per questi scopi. I pochi spiccioli allocati nel Piano Nazionale di ripresa e resilienza (Missione2C4.3) serviranno più che altro per la mappatura deglihabitat marini“prerequisiti per definire misure di protezione ambientale efficaci”. Intanto però ilcuneo salinorischia di mettere in ginocchio il Polesine, la Liguria soffre di un’erosione costiera diffusa, i mari del sud sono spesso inquinati da reflui e rifiuti, la pesca ritrova produttività solo in quelle aree faticosamente protette, anche grazie ai privati. Con buona probabilità Cingolani non sarà ministro nel nuovo governo (egli stesso aveva ammesso a microfoni spenti a novembre 2021 che si sarebbe dimesso entro la primavera, voglioso di tornare nel settore privato). Eppure serpeggia il timore che possa anche arrivare di peggio, molto peggio.
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