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Consigli per ritrovare un equilibrio tra guerra e pandemia

 

Il nostro cervello è allenato a recepirecattive notiziee allo stesso tempo continuare a funzionare come se queste notizienon esistessero, per rendere possibile la vita di tutti i giorni. Per quanto possa apparire poco etico, è un meccanismo fisiologico, indispensabile per lasopravvivenza psichica di una persona. Cosa succede tuttavia quando le notizie drammatiche hanno una escalation,un’impennata improvvisa e tragica?Ne abbiamo avuto un assaggio durante lapandemia, dalla quale infatti siamo usciti emotivamente stremati, mentre le richieste di un aiuto psicoterapeutico hanno avutoun boom. Tuttavia, quella membrana che separa la conoscenza di eventi drammatici dalla vita quotidiana ha continuato in qualche modo a funzionare. Con laguerra in Ucrainaè successo qualcosa di diverso e purtroppo peggiore. La distruttività estrema, la violenza senza limiti, la vicinanza a noi del conflitto, la possibilità di una devastazione su scala mondiale a causa dell’atomicahanno fatto saltare quell’equilibrio precario per cui da un lato ascolto e osservo ciò che accade, dall’altro continuo a lavorare,andare in palestra, accompagnare i figli a sport. La paura sta diventando troppo grande perché riusciamo a gestirla come le tragedie di sempre. Il panico si sta lentamente istillando dentro di noi sotto forma dienorme angoscia anche se ancora senza nome. Ci sforziamo di andare avanti come sempre ma non funziona più. L’equilibrio è rotto, dobbiamo trovarne un altro, anche se ancora non sappiamo quale. Nel frattempo, ci sono alcune cose che possiamo fare e che, senza presunzione, provo a indicare. 1)La prima cosa che dovremmo fare è riconoscere di essere traumatizzati.Lo siamo, in misura diversa ovviamente da chi è direttamente colpito, ma lo siamo. Anche per noi c’è un prima e un dopo e in qualche modo anche per noi la guerra ha segnato il passaggio a una vita che non sarà mai più come prima. Ed è scioccante. Essere vittima di un trauma significa una cosa ben precisa, significa che abbiamo estremamente bisogno di aiuto, che siamo estremamente vulnerabili anche in quanto colpiti. E questo dobbiamo riconoscerlo. 2)Una volta riconosciuto che siamo traumatizzati, cosa potrebbe aiutarci?Un primo consiglio, semplice ma così importante: cercare di non restare soli. Se si lavora in smartworking chiamare un amico, andare in un bar. Se potete e se non state soli anche lì, tornate in ufficio più spesso, è poco ecologico e più faticoso, ma condividere un pranzo o qualsiasi altro momento aiuta. Se avete bambini non troppo piccoli, chiedete loro di accompagnarvi quando dovete andare da qualche parte, per non fare il tragitto da soli. Indirettamente vi darà sollievo. Anche se vi sembra sciocco e inutile fatelo: non restate soli. 3)Cambiate almeno un po’ la vostra agenda. A settembre avrete deciso sicuramente di organizzare la vostra vita in un modo, con certe attività, vostre e per i figli. Ripensatela, dando la priorità alle cose che vi fanno stare meglio e che richiedono meno sforzi cognitivi, meno concentrazione, mentre vi gratificano più emotivamente, perché magari vi consentono di utilizzare il corpo e stare insieme ad altri. Per fare un esempio: suonate uno strumento in solitaria? Forse è tempo di cantare in un coro. 4)Una scelta fondamentale occorre farla rispetto alle notizie: meglio tagliare drasticamente la lettura di quelle in real time, come alcuni siti, o la tv. Non servono. Anche i quotidiani, purtroppo, sono diventati calchi delle tv e quindi inutilmente visivi e ansiogeni. Leggere analisi di geopolitica, leggere soprattutto libri può dare quella calma che solo l’approfondimento può dare. Più andate in profondità meglio starete. Non restate in superficie. Proteggetevi dalle notizie assillanti che non informano né aiutano. 5)Uno psicoterapeuta serve?Chi ce l’ha lo tiene stretto, chi non lo ha potrebbe forse cercarlo. È vero però che oggi il trauma non è soggettivo, ma esterno. Nasce dalla Storia, ed è brutalmente oggettivo. Più che stendersi sul lettino, servirebbe una Comunità. A pensarci è incredibile ma le poche che restano sono o comunità terapeutiche, cioè di cura di patologie e dipendenze, oppure spirituali, religiose. Trovare una comunità è oro di questi tempi perché aiuta a non sentirsi soli, a condividere e, se religiosa, ad avere anche una lettura etica e spirituale di ciò che accade. Al vostro psicoterapeuta, comunque, chiedete una terapia di gruppo, dove parlare anche di guerra, ma confrontandosi. 6)Aiutare gli altri serve?Certamente, ma ancora di più se fatto in maniera meno astratta. Fare un bonifico sostiene certamente chi soffre, ma emotivamente ci restituisce poco. Ospitare un rifugiato è faticoso, complesso, tra difficoltà pratiche e burocratiche, ma in termini psicologici ripaga cento volte di più. Qualunque tipo di volontariato sul campo aiuta, dalla mensa della Caritas al diventare volontari Croce Rossa, dal pulire le strade alla raccolta di vestiti. L’azione è sempre una terapia, soprattutto per l’impotenza legata al dolore. Tutte queste cose scaturiscono dallaconsapevolezza che le cose sono cambiate. Che c’è, appunto,un prima e un dopoe dunque vivere come prima è straniante, ansiogeno ma soprattutto nonostante i nostri sforzi impossibile, perché non risponde allanuova realtà.Certo, sarebbe bello se anche la società ci aiutasse a riconoscerlo. Invece, per fare un esempio, mentre leggiamo di stragi e bombardamenti nel nostro continente, dobbiamo sorbirci ancora stranianti pubblicità che promuovono prodotti con gridolini e voci eccitate, che sono l’altra faccia delle notizie urlate e dei dettagli macabri messi ovunque. Molto meglio sarebbe sintonizzarsi suuna dimensione terza, che incameri la consapevolezza di ciò che è accaduto e cambiato per sempre,restando tuttavia aggrappati ai fatti, e cioè alla verità per cui ancora non siamo noi a essere sotto le bombe, pur essendo anche noi traumatizzati. Alla ricerca di unanuova dimensione psichica,insomma, che ci consenta di accogliere nella nostra mente nuovi lutti e nuovo dolore, senza consegnarci alla disperazione.

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