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Quelle gallery sui corpi dei bambini

 

C’è un’altra guerra nella guerra che si sta combattendo inUcraina. È piùsilenziosama non è meno drammatica e non miete meno vittime. È quella deibambininella dimensione digitale e mediatica. Ed è unaguerrache si combatte lungo due fronti. Il primo è quello dellastrumentalizzazione, della spettacolarizzazione, dell’utilizzo esasperato, gratuito, inutile dei volti e dei dati personali dei bambini sui giornali, in televisione, nei social network e, ovunque, online. Il secondo è quello dellatempesta di immaginie parole, tutte egualmente crude, cruente, drammatiche che stanno travolgendo i più piccoli, in particolare nell’universo digitale, in queste ore. Difficile dire quale sia ilfrontepiù preoccupante, più grave, più allarmante. “Mio padre è rimasto a combattere a Kiew”,dice un bambino, con gli occhi gonfi di lacrime, in un video che rimbalza senza sosta sui social da giorni. E immagini analoghe affollano ormai il nostroquotidiano mediatico. Ci sono persino interegallery, anche su quotidiani blasonati, di bambini in fuga dalla guerra o addirittura caduti in guerra. I volti – riconoscibili tranne poche lodevoli eccezioni -,i corpi e i nomi dei bambini utilizzati come strumento di propagandada una parte e dall’altra per recapitare messaggi politici e influenzare la formazione dell’opinione pubblica globale in una direzione o in quella opposta. I volti, i corpi, le lacrime ela disperazione dei bambini in guerra utilizzati da associazioni di ogni genereper promuovere raccolte di fondi per le popolazioni colpite dalla guerra. E gli stessi corpi, gli stessi volti degli stessi bambini condivisi milioni di voltenell’universo dei social networkda ciascuno di noi, da gente comune, a supporto dei pensieri più diversi dettati, dal cuore, dall’anima o da questo o quell’interesse di parte. Talvolta, chi utilizza queste immagini lo fa scientificamente per far leva sul comune senso di umanità delle persone e conferire più forza ed efficacia al messaggio o, anche, semplicemente, ed è, naturalmente, ancora più grave,per raccogliere click, tempo, attenzione degli utenti da rivendere ai propri investitori pubblicitari. Talaltra le immagini e i nomi in questione finiscono online perché chi li pubblica non arriva a comprendere il disvalore del gesto, irischiai quali, con quella pubblicazione, si espongono quei bambini. Eppure,i rischi in questione sono– o, almeno, dovrebbero essere –evidenti. Quelle fotografie e quei dati, nella dimensione digitale,perseguiteranno quei bambini per sempre,saranno li a ricordare loro questo dramma quando, magari, il tempo avrà lenito, almeno in parte, le cicatrici che inevitabilmente la tragedia della guerra sta solcando profonde sulle loro anime. E, magari, in molti casi li esporranno aconseguenze discriminatoriedi carattere sociale, culturale, religioso o politico di ogni genere, conseguenze, forse, oggi, in molti casi persino imprevedibili. Quelle immagini e quei dati, dobbiamo dircelo senza falsi pudori e reticenze,finiranno nei forum, nelle chat e nei canali attorno ai quali si ritrovano i pedofili del mondo intero, verranno utilizzati – grazie alle nuove tecnologie di deepfake – per produrre in laboratorio immagini pedopornografiche e – grazie alle nuove tecnologie di riconoscimento facciale –potrebbero consentire a ogni genere di criminale di rintracciarli,anche quando la guerra sarà finita, è approfittarsi di loro magari proprio facendo leva sulla tragedia che hanno vissuto. E, certamente, quelle immagini finiranno in pasto aalgoritmidi ogni genere per le ragioni più diverse. Forse basta così per convincersi chepubblicare quei voltie quei dati, non ha importanza quanto nobile sia il fine perseguito, non ha senso,è sbagliato, è eticamente indifendibile ed è giuridicamente illegittimo. È una di quelle circostanze nelle quali non dovrebbe servire unaleggea vietare un comportamento. Ma, in questo caso, la leggec’è. Ladisciplina europea sulla protezione dei dati personali riconosce ai bambini una tutela rafforzatache può sintetizzarsi così: l’immagine riconoscibile e i dati personali di un bambino non dovrebbero mai essere diffusi al pubblico salvo che farlo non sia suo interesse e, comunque, con poche eccezioni, con il consenso libero dei genitori. E, naturalmente,in nessuno di questi casi– specie davanti all’interminabile sequenza di rischi cui quella pubblicazione espone i più piccoli –l’interesse di un bambino coinvolto in una guerra come quella Ucraina è vedere la sua faccia, il suo nome e magari il suo cognome finire online. Salvo, naturalmente, che non sia un bambinoscomparso, disperso, rapitoe pubblicare quella foto non valga ad agevolarne il ritrovamento. Varrebbe la pena, quindi, provare achiuderealmeno questo fronte di guerra il prima possibile. Basta foto con il volto riconoscibile dei bambinie niente loro dati personali in televisione, sui giornali e sui social network salvo a non esser certi che sia nel loro interesse. I bambini europei di questo secondo ventennio del Duemila sono statisfortunati. In una manciata di anni hanno vissutouna pandemia e una guerraa un paio d’ore di volo da dove vivono. Difficile sperare che tanto dolore e tanta sofferenza tutta insieme non abbia unimpatto sul loro sviluppo. E non c’è nessun dubbio che il sistema mediatico, specie nella dimensione digitale e dei social network nei quali, proprio la pandemia, li ha spinti a trasferire porzioni sempre più rilevanti della loro esistenza, sia unpotente amplificatoredi queste tragedie globali. I bambini, ormai da giorni, assistono passivi a scene di guerraloro proposte attraverso tutti i canali digitali, scene che entrano nelle loro teste e nei loro cuori e lasciano, senza ombra di dubbio, un qualche segno. Certonon si può – e non si deve – smettere di raccontare la guerra. E, però, questo probabilmente non legittima nessuno adisinteressarsicompletamente del problema che esiste e che è straordinariamente rilevante. I media potrebbero certamente tener conto che, speciein alcune fasce orarie, è più facile che i loro contenuti incrocino lo sguardo dei più piccolie le grandi piattaforme online – come, peraltro, in alcuni casi già fanno – potrebbero certamente fare di più perché certi contenuti non finiscano tra i contenuti troppo facilmente accessibili ai più piccoli. Forse tanto basterebbe achiudereanche questo secondo fronte di guerra. Non aver rispetto per i bambini significa non aver rispetto per il futuro.

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