Categories: Diritti

Inattive? Ma quando mai?

 

Ogni tanto qualcuno va a misurare il tasso di disoccupazione delle donne italiane, forse nella speranza che sia calato, o forse per accertarsi che il nostro paese sia sempre fra gli ultimi in Europa per occupazione femminile. La ricerca di Randstad Research uscita qualche giorno fa fotografa una situazione non imprevedibile: il 43% delle donne fra i 30 e i 69 anni è classificata come “inattiva”, una scelta lessicale quantomeno curiosa. Tralasciando per ora l’inclusione nella ricerca di una parte delle pensionate (il dato fra le donne più anziane è comunque agghiacciante: il tasso di disoccupazione fra i 55 e i 64 anni è del 47,4%) esistono davvero donne adulte e autosufficienti che si possano definire “inattive”, nel senso letterale del termine? Molte delle donne considerate dalla ricerca sono finite fuori dal mondo del lavoro per l’impossibilità di conciliare gli impegni familiari con quelli professionali. Altre non sono proprio riuscite a entrarci per mancanza di opportunità. Nessuna è “inattiva”, al massimo disoccupata, ma di attività ne abbiamo tutte una valanga. Il problema è che non sono né retribuite né riconosciute. E durante il Covid ce le siamo accollate per intero, perché per un lungo periodo abbiamo dovuto fare a meno delle figure che eravamo abituate a pagare per addossarsene una parte – baby-sitter e persone addette alle pulizie, in testa – e per il resto del tempo abbiamo dovuto riconfigurare tutto intorno alle esigenze didattiche di eventuali figli. Un problema squisitamente femminile, senza alcun dubbio: lo dice chiaro l’emorragia di lavoratrici avvenuta fra il 2020 e il 2021. Secondo una ricerca del dicembre scorso, condotta dalla professoressa Sara Mazzucchelli dell’Università Cattolica di Milano in collaborazione con il Politecnico, il divario occupazionale fra uomini e donne sarebbe ormai di quasi 22 punti percentuali, e l’82% delle intervistate dichiara di essersi occupata da sola della famigerata DAD, e in generale delle esigenze formative dei figli. Le ricerche, oltretutto, non si addentrano nel lato oscuro di questo divario: dietro l’idea della casalinga che si dedica ai figli “per scelta” ci sono spesso donne che di scelte non ne hanno più, legate a uomini che hanno tolto loro ogni autonomia, controllano le finanze casalinghe e le scoraggiano (quando non le costringono con la violenza) dal trovare un’occupazione fuori casa. Una combinazione letale di violenza psicologica, economica e spesso anche fisica. Quando penso all’inattività penso all’inerzia, a un molle lasciar scorrere la vita senza muovere un muscolo: nessuna delle donne che conosco se lo può permettere, soprattutto non quelle che hanno figli. Non è che non ci piacerebbe, anzi: lo stato di natura di molte di noi è una sdraietta sulla spiaggia con una pila di libri accanto. Invece ci tocca trottare, gratis, facendo cose che i nostri compagni (nella maggior parte dei casi) non farebbero nemmeno se pagati. La questione è seria, e deve essere affrontata in maniera seria. Serve una valutazione oggettiva, economica, del valore del lavoro di cura: le donne devono sapere che no, occuparsi di casa figli anziani e maschi senza pollici opponibili non è un dovere, non è parte dell’identità femminile, non è nient’altro che una cosa che va fatta, ma non necessariamente da noi. E gli uomini devono smettere di dare per scontato che lavati due piatti allora a posto così. Dobbiamo sapere con precisione quanto valgono le ore che dedichiamo alla cura, sottraendole o aggiungendole al nostro legittimo desiderio di realizzarci come professioniste, o semplicemente di guadagnare dei soldi senza dover dipendere da nessuno. “Inattiva” è una definizione a dir poco inadatta, che va bene giusto se si concepisce la scansione della giornata come “al lavoro” o “a casa”, e la seconda è dedicata al lavoro, allo svago, al sonno o al piacere. “Inattiva” va bene solo se riteniamo che il lavoro di cura non sia lavoro. Sappiamo tutte che non o così, vero?

Redazione

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