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La finanza verde conviene davvero (ma occhio al greenwashing)

 

La finanza verde sarà il motore economico della transizione ecologica. Sotto la spinta di piani statali come il Green Deal europeo, come il piano infrastrutturale americano Build Back Better e il XIV piano quinquennale cinese, il settore finanziario privato ha sterzato verso la transizione ecologica, comprendendo i rischi di un’esposizione legata al fossile e alle mega-corporation ecologicamente insostenibili. La crisi ambientale e climatica è sempre più vista come un rischio per la stabilità finanziaria. È così che negli ultimi due anni sono esplosi i prodotti finanziari con criteri ambientali, dai green bond ai portafogli specializzati dei fondi. Il mantra sono i criteri ESG (Environmental, Social and Governance) che misurano le performance non finanziarie di un’azienda legate ad ambiente, impatto sociale e di gestione. Sono spesso prodotti ancora grezzi, non particolarmente sofisticati, ma destinati inevitabilmente – lo sostengono grandi guru della finanza come Fredéric Samama – a maturare ed essere sempre più efficaci, distinguendo chi è e “chi ci fa” In Italia esiste una discreta offerta di prodotti anche per piccoli investitori, grazie a rendimenti molto alti sugli investimenti legati a clima ed elettrificazione. Tuttavia il 64,4% degli italiani non ha una buona conoscenza di cosa siano gli investimenti ESG e quelli “green”, visto che dichiarano di saperne poco o niente. Dati che fanno pensare, quelli del Rapporto sugli investimenti ‘sostenibili’ realizzato dal Censis in collaborazione con Assogestioni. Con una liquidità nei portafogli delle famiglie che continua a crescere (siamo a 1.600 miliardi, con un aumento del 5 % rispetto allo scorso anno) questa è una grande opportunità per sostenere la decarbonizzazione dell’economia, con impatti positivi dal punto di vista della salute e della riduzione della spesa legata al rischio ambientale. Il tutto con investimenti sicuri, e con buone rendite. Oggi è però fondamentale che, per favorire l’acquisto dei prodotti ESG, si diano regole a livello UE chiare, si usino metriche condivise per distinguere gli investimenti buoni dal “greenwshing”, con sistemi di riconoscibilità dei buoni investimenti (green rating). Non a caso l’84,6% degli italiani interessati attende lo scatto in avanti su tassonomie e riferimenti semplici, distintivi, autorevoli, per investire finalmente in maniera decisa. Non dovrà però mancare il ruolo del giornalismo e della società civile. Senza cani da guardia, le metriche da sole non riusciranno a distinguere i buoni dai cattivi, con questi ultimi potrebbero impattare direttamente sui portafogli dei piccoli investitori. Senza una chiara distinzione si rischia una bolla in questi investimenti, con il mondo della finanza incapace di distinguere le mele marce dai frutti buoni. Oggi il greenwashing, quando cioè si vende come sostenibile qualcosa che non lo è, non dovrebbe più essere visto come semplice marketing ingannevole, ma dovrebbe e dovrà essere trattato come un reato, esattamente come il falso in bilancio. E dovrà essere perseguito legalmente. Solo così tuteleremo i nostri investimenti verdi!

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