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Il progetto della grande ragnatela mondiale, la rete delle reti aperta al mondo, è in difficoltà di fronte alle politiche digitali di una larga parte dei governi del mondo. L’Occidente deve riconquistare fiducia. Anche con la coerenza
Credit: Markus Spiske/Unsplash
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19 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

Sessanta governi hanno firmato a Washington la Dichiarazione per il futuro di internet. Si ripromettono di battersi perché l’internet sia un sistema aperto, libero, globale, interoperabile, affidabile e sicuro. Quasi metà di questi governi sono europei, compresa l’Ucraina, altri fanno parte del mondo anglosassone, solo quattro sono africani, sei sono latino-americani, quattro dell’Asia-Pacifico. Mancano alcuni Paesi che ci si sarebbe aspettato ci fossero: Cile, Messico, Norvegia, Sudafrica, Corea del Sud. E mancano Brasile, India, Indonesia, Filippine, Turchia.

La geopolitica dell’internet sembra richiamare vagamente la struttura delle alleanze che si sono formate attorno alla reazione alla guerra in Ucraina. In effetti, Cina e Russia hanno preso una posizione comune che dimostra un progetto di internet molto diverso: vogliono una rete sicura, nazionale e sovrana. Cina e Russia intendono impegnarsi all’International Telecommunication Union (ITU) per ottenere il diritto di governare la loro parte di internet in modo autonomo e separato dall’insieme della rete delle reti. A conti fatti, 135 Paesi su 195 non hanno firmato la Dichiarazione di Washington. E in quei Paesi vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

L’Occidente potrebbe trovare in questo fatto un motivo di meditazione.

Nell’insieme, i governi del mondo non si stanno spostando verso la democrazia, ma vanno in direzione contraria. E se il sistema occidentale non attrae più quanto, forse, si poteva sperare in passato, è probabilmente anche per i suoi risultati. La polarizzazione sociale non è mai stata tanto alta in Occidente; la leadership occidentale sulle sfide globali, come l’emergenza climatica, non è priva di tentennamenti; la generosità dell’Occidente verso i Paesi in via di sviluppo, anche nel momento della pandemia, non è stata certo specchiata o entusiastica. E per quanto riguarda internet, tra i principi e la realtà ci sono alcuni gradi di separazione.

L’internet occidentale non riesce a essere particolarmente globale, proprio perché non convince tutti. Non è particolarmente sicura, anzi sta attraversando uno dei suoi periodi più pericolosi, almeno a giudicare dal numero di cyberattacchi subiti da aziende e governi. Quanto alla libertà, restano aperte le ferite alla credibilità occidentale aperte dalle rivelazioni di Edward Snowden. E, infine, per quanto riguarda l’interoperabilità deve dimostrare di sapersi riformare profondamente.

Proprio l’interoperabilità è la questione centrale per la coerenza dei principi e i fatti nell’internet dell’Occidente. Le gigantesche aziende che hanno preso il controllo di una gran parte del traffico e delle attività che si sviluppano nella rete in Occidente, non sono interoperabili, se non per una minoranza di servizi. La posta elettronica resta interoperabile, per fortuna. Il web nella sua impostazione generale anche. Ma molte altre dimensioni della rete ormai essenziali non lo sono. I sistemi di messaggistica istantanea non lo sono. I negozi per l’acquisto di applicazioni per telefonini non sono interoperabili. I sistemi di servizi in cloud restano separati.

La Commissione Europea si è impegnata su questo fronte. E incontra resistenze straordinarie da parte delle aziende digitali americane proprio sul piano dell’interoperabilità. Gli americani continuano a far valere la vecchia narrativa secondo la quale l’autoregolamentazione delle attività internettiane è il modo migliore per garantire innovazione e sviluppo. Qualsiasi normativa troppo stringente, dicono, è un freno all’innovazione e dunque si traduce in uno svantaggio per i consumatori.

Ma questa narrativa non convince più. E il tentativo di regolamentare le attività almeno delle piattaforme più grandi sta trovando a quanto pare un largo consenso tra i cittadini informati. Non solo in Europa. Negli Stati Uniti, il 73% della popolazione manifesta profonde preoccupazioni per quanto riguarda la privacy online e il 23% esita a usare l’ecommerce proprio per timore di violazioni della privacy, ha rivelato un sondaggio del Dipartimento del commercio. Tanto che il presidente Joe Biden e il Congresso hanno manifestato l’intenzione di sviluppare una normativa sulla privacy online. La leadership europea in questo senso è indiscutibile. Ma il potere degli interessi dei giganti digitali è ancora importante.

La ridefinizione degli equilibri geopolitici globali, in questo periodo, non sembra favorevole all’Occidente, che in effetti appare ricompattato ma non molto attraente. Per cambiare immagine, una maggiore coerenza tra principi e realtà potrebbe aiutare.

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di Chiara Manetti 6 min lettura