Diritti

Come sta la comunità LGBT+ al lavoro

Secondo un’indagine Istat-Unar, in Italia le persone LGBT+ non sempre si sentono protette nei propri contesti lavorativi. Poche le aziende che lavorano sul diversity management
Credit: Matt Forfar/Unsplash
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
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19 maggio 2022 Aggiornato alle 18:00

Istat e UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) stanno portando avanti un progetto di ricerca sulle discriminazioni nei confronti della comunità LGBT+ in ambito lavorativo e sulle diversity policies attuate dalle imprese per il rispetto della comunità stessa.

Secondo i risultati dell’ “Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato” (realizzata nel 2020-2021 e che ha coinvolto oltre 21.000 persone residenti in Italia), il 26% delle persone omosessuali o bisessuali intervistate ha dichiarato che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio in almeno uno degli ambiti lavorativi considerati: avanzamento di carriera, riconoscimento e apprezzamento delle proprie capacità, retribuzione (in questo caso, in maniera meno rilevante).

Il 12,6% non si è presentato o candidato a un colloquio di lavoro per paura che l’ambiente lavorativo potesse essere «ostile» al proprio orientamento sessuale. Per contestualizzare meglio il risultato, il report Istat ha proposto una definizione riguardo al «clima ostile in ambito lavorativo» contro le persone LGBT+, includendovi casi di calunnia, derisione, umiliazioni, aggressioni (anche verbali), esclusioni volontarie da mansioni / riunioni / incontri / conversazioni, offese con avance sessuali, minacce.

Circa una persona su tre ha riportato episodi di outing (quando una persona rivela l’orientamento sessuale di un’altra senza il suo consenso) e quasi il 62% ha subito micro-aggressioni nell’attuale o ultima occupazione (come offese verbali, domande riguardo la propria vita sessuale e avance sessuali non richieste). Forse è per questo, per evitare di cadere in queste situazioni, che circa il 40% ha preferito evitare di parlare della propria vita privata a lavoro, così da tenere nascosto il proprio orientamento sessuale.

L’indagine ha anche analizzato chi sono ə principali confidenti delle persone LGBT+ intervistate e discriminate sul lavoro. Al primo posto c’è la famiglia (60,8%), seguita daə amicə (53,7%). Per quanto riguarda le persone interne all’impresa, ci sono colleghə di pari grado (42,2%) e, a volte, datorə di lavoro e superiori (24,4%). Pochissimə hanno scelto di rivolgersi a organizzazioni sindacali (10,5%), legali (6%) o LGBT+ (1,4%).

È bene ricordare che questi risultati non sono rappresentativi dell’intera comunità LGBT+ ma, come spiega il report, solo «di una piccola parte che ha voluto unirsi civilmente e che si caratterizza per un’elevata visibilità rispetto al proprio orientamento sessuale».

La ricerca si è anche concentrata sulle imprese attive nel diversity management (DM), ovvero nell’implementazione di politiche e iniziative che valorizzino la diversità deə lavoratorə, oltre a quelle già previste per legge.

Nel 2019, solo il 5,1% delle imprese (con 50 dipendenti e più) ha adottato una qualche misura di diversity management a favore della comunità LGBT+.

Più nello specifico, il 3,3% di queste aziende ha permesso aə proprə dipendenti di utilizzare servizi igienici, spogliatoi e simili rispettando la propria identità di genere, il 2% di esprimere liberamente e pubblicamente la propria identità di genere per le persone transgender, mentre l’1,6% ha adottato misure a hoc per le tutela della privacy deə lavoratorə transgender che hanno intrapreso il percorso di transizione prima dell’arrivo nell’impresa.

Sul fronte opposto, risultano essere ancora poche le occasioni formative sulle tematiche LGBT+ per il top management (1,3%) e ə lavoratorə (1,2%), così come gli strumenti interni di diversity management a tutela della comunità LGBT+.

Le imprese che hanno deciso di adottare misure ulteriori rispetto a quelle già previste dalla legge hanno indicato quali motivazioni principali la volontà di prevenire atti discriminatori e di favorire il benessere, la soddisfazione e la motivazione deə dipendenti.

Per quelle che, invece, non hanno mai adottato simili misure, la scelta è stata dettata dal fatto che «non ne è emersa la necessità», che «le misure di legge già approvate sono sufficienti», che «l’ambiente di lavoro è già inclusivo» o che «l’inclusione LGBT+ non richiede misure ulteriori» rispetto a quelle previste per ə altrə lavoratoə.

Se da una parte per ə stakeholder intervistatə queste politiche di diversity management devono favorire nella pratica un cambiamento di tipo culturale (e quindi non rimanere solo una formalizzazione teorica), dall’altra credono anche che il principale attore del cambiamento rimanga comunque l’istituzione pubblica.

Un pensiero condiviso anche dalle persone omosessuali e bisessuali in unione civile (ora o in passato) intervistate: quasi il 78% ha spiegato che sono necessarie nell’ambito lavorativo attività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulla diversità LGBT+ organizzate dalle istituzioni pubbliche.

Ma servono anche misure a carattere più generale, che quindi superino il contesto lavorativo della singola impresa: «Attività di formazione alle tematiche LGBT+ devono essere dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto sono ritenute necessarie iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBT+ a partire dalle scuole», si legge nel report.

«Ampio accordo è dato a favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, diritti per le famiglie LGBT+ tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali e l’importanza di una lettura intersezionale delle differenze», conclude.

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