Diritti

Contro l’omofobia (ma sul serio)

Una giornata non cambia niente, senza un cambio di prospettiva radicale sulle identità LGBTQ. Ma le istituzioni latitano
Credit: josh wilburne/unsplash
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17 maggio 2022 Aggiornato alle 06:30

Le giornate di sensibilizzazione servono a qualcosa? Nel senso: servono davvero? Me lo domando ogni anno, almeno due volte l’anno: 8 marzo e 25 novembre, Giornata internazionale della donna e Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Negli anni, quelle due giornate sono arrivate a occupare l’intero mese, con dibattiti, incontri, campagne.

È un progresso, anche se ci sarebbe da discutere sull’effettiva penetrazione del tema nelle fasce di popolazione meno politicizzate: insomma, quanta gente ancora chiama l’8 marzo “Festa della donna”, manda gli auguri e regala mimose flosce a parenti e colleghe? Quante donne sono a conoscenza del significato politico di queste due ricorrenze? Quante hanno mai pensato di mollare tutto e aderire allo sciopero nazionale dell’otto marzo, o di unirsi a uno dei cortei organizzati da “Non una di meno” per protestare contro la violenza sistemica a danno di donne e ragazze?

Oggi ricorre la Giornata internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, fissata il 17 maggio per commemorare la rimozione dell’omosessualità dalla classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’OMS.

Una collocazione che ha senso, anche se arriva pochi giorni prima dell’inizio del mese del Pride (anche quello, un tempo celebrato il 28 giugno a ricordo di Stonewall ed espanso per prolungare l’attenzione sui diritti LGBTQ). Si installano panchine arcobaleno, il Ministero dell’Istruzione ha inviato una circolare alle scuole per invitarle ad approfondire il tema, i soliti noti hanno protestato contro “il gender”, altri spenderanno parole sobrie e il più possibile generiche contro la discriminazione, ma tutto verrà più o meno lasciato com’è.

Perché tanta sfiducia? Perché è difficile che qualcosa cambi davvero finché le persone LGBTQ saranno raccontate da media e istituzioni con toni che oscillano fra il patetico e lo scettico. Le persone trans, in particolare, sono afflitte da una narrazione che insiste sul malessere, sul disagio, sull’errore di programmazione della natura, sul sentirsi male nel proprio corpo. Una narrazione che appiattisce l’esperienza trans (e cancella completamente quella delle persone non binarie, delle quali non si vuole nemmeno riconoscere l’esistenza) lasciando che venga definita a partire da una “normalità” stabilita dalle persone cisgender, e che esige una tassa letterale di carne e sangue e dolore per ottenere uno straccio di accettazione sociale.

Il tutto mentre il programma più seguito dell’anno in Italia ha già sistemato la questione con un sapido siparietto in cui la persona trans era una prostituta brasiliana interpretata da Checco Zalone. Eh, ma siete voi che non vi sapete divertire.

Detta brutalmente: siamo uno degli ultimi Paesi occidentali a distinguere ancora fra coppie eterosessuali e coppie queer e ad aver emanato una legge apposita per separare le unioni queer da quelle eterosessuali.

Gli etero si possono unire solo in matrimonio, le coppie dello stesso genere (anagrafico o di identità o entrambi) hanno a disposizione solo le unioni civili. Non esiste la possibilità di adottare figli se non tramite complicate e costose procedure legali, e sperando nella benevolenza dei giudici e delle autorità locali.

Le persone LGBTQ non sono cittadini e cittadine qualsiasi, non godono degli stessi diritti delle persone eterosessuali e cisgender, e questa è una posizione ampiamente condivisa in maniera trasversale agli schieramenti politici. A parole, nessuno è omofobo o transfobico: nei fatti, si spara sul DDL Zan per questioni che hanno a che vedere unicamente con la transfobia. Come esattamente pensiamo che le nostre istituzioni siano in grado di promuovere l’“educazione” contro le discriminazioni, non mi è al momento molto chiaro.

Serve un cambiamento di mentalità radicale che passi per una presa di coscienza della realtà oggettiva, osservabile, individuale e collettiva delle questioni che attraversano l’identità di genere e l’orientamento di attrazione. Il binarismo maschio/femmina è inesistente anche dal punto di vista genetico, come dimostrano gli studi sulle possibili variazioni delle caratteristiche del sesso.

La “normalità” su cui basiamo le nostre regole è figlia di una prolungata ignoranza di tutte le varianti possibili dell’umano, e della dominanza di una sola identità di genere su tutte le altre, occhio che definisce senza essere definito, sguardo che decide chi e cosa deve essere l’altro, quanto spazio può occupare, di quali diritti può godere. È cultura, religione, abitudine, non realtà o natura o tutte quelle altre cose che usiamo per giustificare un privilegio. Le persone LGBTQ non nascono tristi o sofferenti o discriminate, lo diventano quando capiscono di essere costrette ogni giorno a giustificare la propria presenza nel mondo.

Potremmo cambiare tutto questo? Sì, almeno in parte, introducendo l’educazione emotiva e relazionale nelle scuole di ogni ordine e grado, non una volta l’anno ma tutto l’anno. Servono soldi, ore, personale formato, e il problema è sentito dalle istituzioni come tutti i problemi che riguardano “il genere”: esattamente zero. Per non parlare dell’opposizione aperta e feroce delle destre a qualsiasi soluzione preventiva alle questioni su cui basano la loro identità, quella sì sacra e indiscutibile.

Allora facciamola, questa giornata contro l’omofobia e le discriminazioni contro le persone LGBTQ, a qualcuno servirà, a qualcosa servirà. Ma ricordiamoci che mentre noi aspettiamo che il cambiamento arrivi “naturalmente” e scarichiamo sulle nuove generazioni il compito di “salvarci” da noi stessi, ci sono persone, esseri umani, che invecchiano e muoiono da cittadini e cittadine di seconda categoria. Se non usciamo dalla logica per cui essere queer è una sfortuna che ti capita, per la quale meriti pietà ma non pari diritti, le iniziative saltuarie servono davvero a poco.

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